by Editore | 23 Agosto 2012 9:01
Una tregua molto fragile regnava ieri sera a Tripoli tra le fazioni in lotta, simbolicamente divise da una strada il cui nome dice tutto: via Siria. E’ solo una pausa, inutile farsi illusioni. Mentre cessavano gli scontri a fuoco, altri due combattenti venivano colpiti e uccisi portando a 12 i morti dell’ultima battaglia tra sunniti e alawiti. Decine i feriti. L’esercito è rimasto a guardare per un giorno intero. E’ entrato in azione, confiscando armi e allontanando i combattenti delle due parti, solo quando ha avuto l’ok dalla caotica galassia politica libanese. Anche questa volta i militari hanno versato un tributo di sangue: un morto e 12 feriti.
Si piangevano i caduti negli scontri di ieri a Bab al Tabbaneh, roccaforte del sunnismo più militante, e al Jabal al Mouhsen che da sempre ospita gli alawiti, setta riconosciuta come islamica solo 75 anni fa dalle autorità libanesi ma considerata eretica dai sunniti, in particolare dai salafiti che sempre più numerosi affollano Tripoli. Altri morti si piangeranno molto presto.
Il nord del Libano ormai è parte del campo di battaglia della guerra civile siriana. Da Tripoli, Akkar e altre località partono viveri, armi e denaro per i ribelli siriani. Gli alawiti libanesi, schierati con l’alawita presidente siriano Bashar Assad, provano a fermare questi traffici vitali, assieme a quelli che partono dalla Turchia, diretti agli insorti siriani. Il Jabal Mouhsen assomiglia ad un valico di frontiera siriano. Ovunque si vedono poster giganti di Assad, così come quelli del leader sunnita libanese Saad Hariri dominano in gran parte dei quartieri di Tripoli. A torto o a ragione i miliziani armati alawiti si sentono chiamati a prendere parte ad una lotta per la sopravvivenza della loro comunità sparsa tra Libano e Siria. Vedono nella caduta di Assad l’inizio della catastrofe, ossia della vendetta dei sunniti, decisi a prendere il potere in Siria dopo decenni di dominio della minoranza alawita attraverso il partito Baath. Con inevitabili conseguenze anche in Libano.
Rifaat Eid, leader del Partito arabo democratico, rappresentante della maggioranza dei 70mila alawiti (altre fonti dicono 120mila), non si lascia avvicinare facilmente dai giornalisti (di fatto rilascia dichiarazioni solo alla tv amica al Jadid). Evita in pubblico di mettere sullo stesso piano la battaglia di Tripoli con quella in corso ad Aleppo. Preferisce parlare del Libano. Non manca però di fare commenti sui nemici salafiti, che allargano la loro influenza, viaggiando sulle ruote della macchina del partito “Mustaqbal” di Hariri, fino al sud del Libano. Ogni sera a Sidone, sotto un’ampia tenda, lo sceicco Ahmad Assir, sconosciuto fino a qualche mese fa, pronuncia sermoni di fuoco davanti a centinaia di giovani, mirando sempre al «bersaglio grosso» dello sciismo libanese: Hezbollah. Rifaat Eid nega che i sunniti siano suoi nemici, condanna solo gli estremisti. Una sua celebre frase tuttavia svela ciò che pensa dei suoi avversari: «I salafiti appaiono gattini indifesi quando sono deboli ma diventano delle tigri feroci quando si sentono forti».
Per Eid il Jabal Mouhsen è una trincea, in un paese dove gli alawiti non hanno mai avuto un ministro, un governatore, sindaci, avvocati, alti ufficiali nell’esercito. I primi due parlamentari li hanno ottenuti solo dopo gli accordi di Taif che misero fine all’inizio degli anni ’90 a 15 anni di guerra civile libanese. Una trincea che appare difficile da difendere. I combattenti di Bab al Tabbaneh sino ad oggi sono stati inferiori militarmente a quelli del Jabal ma negli ultimi combattimenti sono apparsi molto più forti grazie, si dice, a rifornimenti di armi giunti di recente a Tripoli. La battaglia nelle strade della «capitale del nord» riprenderà presto, anche perchè è parte della lotta politica tra governo e opposizione in Libano. Il giornale al Diyar ieri scriveva che Saad Hariri dall’estero (dove risiede per gran parte del tempo) starebbe manovrando, assieme al capo del dipartimento informazioni della sicurezza interna, Wissam Hassan, per tenere alto il fuoco della tensione a Tripoli, sperando che le fiamme dello scontro armato finiscano per divorare il premier Najib Mikati, sunnita come lui ma «colpevole» di guidare un governo amico della Siria.
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