La grande illusione

by Editore | 8 Agosto 2012 8:37

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ROMA – Ancora impegnato a mostrare in giro il suo Diazn e a discuterne con il pubblico delle arene estive, il regista Daniele Vicari sta per presentare (selezione ufficiale fuori concorso alla prossima Mostra veneziana di Alberto Barbera) un documentario la cui lunga preparazione è stata parallela all’impegno del film sulle giornate di Genova del luglio 2001. Racconta, con il repertorio e le interviste, un fatto di dieci anni prima, l’8 agosto 1991, e forse non solo nella sua percezione ravvicinata c’è un collegamento tra i due momenti. Diremo fra poco di che si tratta. Prima le esatte parole che per definire il compito del documentarismo Vicari ha scritto, invitato a raccontare un documentario che gli sarebbe piaciuto aver fatto lui — la sua scelta cade su Quando eravamo re di Leon Gast sullo storico incontro tra Mohammed Alì/Cassius Clay e George Foreman del 1974 nello Zaire di Mobutu — e perché: «Per tutto ciò che racconta, perché gli infiniti repertori audiovisivi sono impazienti di esistere, come direbbe Zavattini, ma anche perché è la dimostrazione che il cinema documentario può avere una potenza e una forza ineguagliabile a patto, ovviamente, di essere all’altezza della sfida» (l’intervento è uscita su La lettura del Corriere della Sera di domenica 29 luglio).
Ecco un bell’esempio di consapevolezza che rappresenta bene la stagione creativa del documentarismo italiano che sta dando filo da torcere al cinema di finzione spesso più in affanno. Il documentario di Vicari s’intitola La nave dolce.
Si tratta del clamoroso arrivo nel porto di Bari di ventimila albanesi, giovani e giovanissimi, assiepati sul mercantile Vlora che era stato assalito e costretto a dirigersi verso le coste italiane dal porto di Durazzo. E della loro odissea durata circa una settimana all’inizio di agosto del ‘91, in condizioni subumane tra il molo e lo stadio del capoluogo pugliese, prima che la maggior parte di loro — un numero imprecisato riuscì a fuggire e a restare grazie all’aiuto della cittadinanza — venisse rimpatriata via mare o via aerea. La nave è dolce, secondo il titolo scelto, probabilmente perché lo spirito di quella “invasione” fu nelle intenzioni non solo pacifico ma anche grato verso una terra che rappresentava la Libertà , e inizialmente ma anche in seguito dalla parte di qua non ci fu allarme ma accoglienza.
Oltre a tutto il resto, immagini azioni e parole di persone che avevano preso d’istinto la decisione di salire sulla Vlora lasciandosi tutto alle spalle in un batter d’occhi (tra loro c’è anche Kledi Kadiu, allora poco più che un bambino diventato poi un celebre ballerino), desta molta impressione rivedere e riascoltare l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga accorso a Bari — presidente della Repubblica, non ministro dell’Interno — pronunciare in conferenza stampa parole di una durezza inusitata contro la “irresponsabilità ” della strategia assistenziale e solidaristica del sindaco della città , democristiano come lui. Sentiamo Vicari.
«Non è facile raccontare un evento collettivo al cinema, il territorio privilegiato del racconto cinematografico solitamente è l’eroe o l’antieroe. La nave dolcesi intreccia nella mia coscienza di narratore con Diaz. nNon so perché, ma sento che hanno qualcosa in comune. Oltre alla casualità  di essere stati realizzati contemporaneamente, entrambi raccontano episodi collettivi che rappresentano una porzione di avvenimenti storico-politici più grandi e complessi. Ma anche dal punto di vista storico-politico — prosegue il regista — vedo una continuità  tra i due episodi: Cossiga che scende dall’aereo e va a rivendicare in conferenza stampa il primo respingimento avvenuto in Italia, è per me il segno del grande cambiamento politico avvenuto nel nostro paese dopo il crollo del muro di Berlino. Da quel momento la gestione dell’ordine
pubblico tende a sostituirsi alla politica sul piano dei diritti sociali e civili. Un’involuzione democratica in piena regola che ha trovato la sua massima espressione a Genova nel 2001”. Se Vicari concentra tutta la sua attenzione sulla storia della Vlora peraltro senza dirci quale sarebbe stata la sorte successiva dei testimoni intervistati, un altro documentario che vedremo più in là  (al festival romano di Marco Muller?) decide invece di abbracciare un orizzonte di eventi più ampio. L’autore è albanese, Roland Sejko, e anch’egli approdò in Italia qualche mese prima dello sbarco della Vlora. La nave si chiamava Legend e portava circa cinquemila suoi connazionali. Prima della Vlora i nuovi arrivati erano stati trattati come profughi o rifugiati e non come immigrati clandestini.
Ebbene Sejko, che già  aveva realizzato conn Albania, il paese di fronte un bel film di montaggio di repertori storici del Luce e degli archivi albanesi sui rapporti stretti tra le due sponde dell’Adriatico (in particolare la nostra occupazione 1939-1943), con il suo Anija — La nave degli albanesi racconta il prima e il dopo Vlora. Il prima dell’agonia del regime comunista di Enver Hoxa, che dopo aver rotto con Mosca nel ‘61 e poi con Pechino nel ‘78 aveva gettato il paese nell’incubo dell’indigenza, e dell’euforia della fine di decenni di isolamento; e il dopo dell’ondata di caos e anarchia della metà  degli anni Novanta, di chi ha costruito una nuova vita in Italia o in Albania.
Una testimonianza, quella di Eva, che era sulla Vlora e vive in Puglia, è comune ai due documentari. Le sue parole lucide ed emozionate danno una misura esatta dell’aspettativa che quei giovani di allora, molti dei quali come lei laureati e già  in partenza padroni della nostra lingua, nutrivano verso l’Italia.

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