La battaglia del Pacifico Cina-Giappone, le isole contese

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SANSHA – L’ultimo fronte della “guerra delle isole”che infiamma il Pacifico è un villaggio di pescatori alla deriva nel Mare Cinese Meridionale. Fino a qualche settimana fa i 128 abitanti di Sansha, tutti vecchi, vivevano come naufraghi dimenticati, gettandoretirattoppatenell’attesadeirifornimenti mensili in arrivo dal porto di Wenchang, a meno di duecento miglia sull’isoladiHainan.Rottedipiratistanchiedicarichiproibiti,magiorniconsumati nella pace apparente del nulla, come se il mondo fosse realmente lontano. Oggi invece risiedono qui già  833 persone, 195 famiglie trasferite da Haikou. Duemila pescatori improvvisamente dotati di strascichi da sogno sono stati inviati da Pechino sulle tre isole vicine, Xisha, Zhongsha e
Nansha, che oltre la Grande Muraglia si chiamano Spratly, o Paracel. Sul cargo Qiongsha-3, salpato qualche giorno fa da Qinglan destinazione isola diYongxing,navigano altri 250 coloni strappati alle risaie delGuangdong. La loro missione è fondare il nuovo avamposto di Pechino nella regione più calda dell’Asia: gli arcipelaghi contesi tra le potenze emergenti del pianeta, terra di conquista strategica per le economie che ambiscono a dominare questo secolo ricontrollando un oceano.
Gli ex contadini delle campagne cinesi, deportati in mezzo al mare per potenziare la flottiglia nazionale da pesca, tutti giovani e reduci da un corso di patriottismo offerto dal partito, sbarcano a Sansha già  bruciati dal sole, silenziosi e sazi di pensieri. La traversata, minacciata dall’ultimo tifone dell’estate, è stata accompagnata dal ponte aereo dei jet dell’esercito popolare cinese che trasportano soldati, armi e il materiale per costruire nuove caserme.
Sono i prodigi della Cina: in un istante dal vuoto ad una città -fortezza nel cuore dei prossimi conflitti, che cresce a vista d’occhio su un atollo di 2,3 chilometri quadrati, militarizzato per occupare 2 milioni di chilometri quadrati di acque con molti proprietari, ma in cerca di un padrone. Oltre due terzi degli scogli di Yongxing sono “zona invalicabile” e le truppe cinesi sono già  impegnate nella loro prima battaglia: scacciare i gabbiani e distruggere i nidi di altri uccelli marini dai lotti destinati a dormitori, trincee, postazioni lanciamissili e piste d’atterraggio pensate anche per Boeing 737 civili che la propaganda sogna carichi
di turisti. Il resto è una scoraggiante metropoli asiatica in miniatura e nuova di zecca, concentrata ai lati della “Via Pechino”.
Sull’arteria principale, e per ora unica, si affacciano un negozio della China Mobile, la filiale della Banca dell’Industria e del Commercio, l’ufficio postale, i banchetti del mercato, un centro commerciale con articoli dichiaratamente di “quarta scelta”, un ospedale e un carcere per pescatori di frodo. Non ci sono automobili, solo qualche risciò elettrico, ma sul fondo di vasti parcheggi deserti, squadre di operai puliscono scintillanti palazzoni governativi, non ancora ultimati. Sansha non è infatti un’irraggiungibile caserma camuffata da ambita località : è un avamposto politico, la sede distaccata del partito-Stato, la frontiera più estrema del comunismo di successo, l’icona della nuova propaganda nazionalista della prima
potenza dell’emisfero d’Oriente. La sua inaugurazione è stata trasformata dal governo centrale nell’evento mediatico dell’anno. Elevata da contea a prefettura, per 1,4 miliardi di cinesi è diventata la città  dei record più meridionale del Paese, l’ultima ad essere fondata, la prefettura più piccola.
Dalla vicina Sanya, inferno simil- caraibico elevato a paradiso di cemento per milionari esordienti di Cina, Siberia e Sudest asiatico, la tivù nazionale ha trasmesso lo show “Io amo la mia Sansha”, arricchito da soldatesse in minigonna che intonavano il tormentone “Xisha, la mia graziosa città  natìa”. Il Congresso del Popolo di Hainan ha istituito il primo Congresso cittadino di Sansha, designato 60 sconosciuti a deputati e in questi giorni si lavora alla formazione del primo governo. E’ da tale fusione straordinaria tra ideologia, forze armate
e affari, precipitata su una roccia, che Pechino intende contrastare l’esplosione di interessi contemporanei e di rancori storici che infiamma i mari dell’Asia al largo delle sue coste, crocevia del nuovo scontro globale emigrato dall’Europa verso l’Estremo Oriente. Qui nel Sud i nemici apparenti dei cinesi sono oggi Vietnam, Filippine, Malesia, Thailandia, Brunei e perfino Cambogia e Singapore. I diritti di pesca, come il villaggio di pescatori rifondato in base militare, sono però un argomento buono a malapena per i vertici multilaterali. Tra gli atolli contesi del Pacifico transitano ogni anno 5 trilioni di dollari di merci, la metà  del tonnellaggio mondiale. Chi controlla la strada, possiede l’economia di produttori e clienti.
I fondali oceanici, grazie alla tecnologia, sono poi la nuova cassaforte per l’energia del pianeta: gas, petrolio, minerali e terre rare per l’hi-tech. Dominare il Pacifico equivale ad assicurarsi le materie prime più economiche dei prossimi decenni, sfilandosi dalla dipendenza da Russia e Medio Oriente. Sono così i tesori sottomarini, assieme all’incontenibile ascesa cinese che minaccia l’egemonia degli Stati Uniti, a scatenare la nuova Guerra Fredda delle isole, con gli arcipelaghi dell’Asia, dalla nordica Sakhalin alla meridionale Palawan, eletti a invisibile Cortina di Ferro mobile del Duemila.
Da Sansha la Cina si prepara a contendere al Vietnam e ad altri sei Paesi vicini i 750 isolotti delle Spratly, gonfi di idrocarburi, oltre che la secca di Scarborough, una spugna di petrolio che anche le Filippine considerano propria. Il fronte del Pacifico è però assai più vasto, raggiunge il Mare Cinese Orientale e dietro le flotte dei pescherecci, o la battaglia degli sbarchi incrociati di attivisti nazionalisti, si profilano portaerei e sommergibili delle marine militari che stanno ridisegnando la geografia del potere mondiale. Sono secoli che l’Asia è cronicamente in lotta per isole e mari, tutti denominati con toponimi diversi.
Queste ore segnano però un salto di qualità  senza precedenti. La crisi dell’Occidente contagia l’Oriente, il Giappone — proprio ieri il premier Yoshihiko Noda ha scritto una lettera al presidente cinese Hu Jintao per tentare di ricucire lo strappo — e la penisola coreana scossa dalla nuova leadership di Pyongyang. L’estrazione delle materie prime si sposta dalla terraferma al mare, le compagnie cinesi puntano all’acquisto delle multinazionali di Usa, Gran Bretagna,
Canada e Australia, il fiato di Pechino soffia sul collo di Washington e le nuove economie asiatiche cominciano a unirsi nel timore di un dominante neocolonialismo della Cina. La pressione prossima allo scoppio è la ragione che ha indotto l’America a riposizionare le basi militari dall’Atlantico al Pacifico, la Russia a stipulare con la Cina il “patto dell’energia”, Pechino a investire come mai sulle forze armate, nelle missioni sottomarine e nello spazio. Da sola non basterebbe però a scatenare oggi un conflitto fissato per domani. L’allarme-isole suona così più minaccioso in Asia per il “fattore 2012”, che in pochi mesi vedrà  rinnovare il potere in quattro delle più decisive economie del pianeta e dovrà  ridefinire il sistema-Ue.
Dopo il ritorno di Putin al Cremlino, il partito comunista cinese, spaccato tra riformisti e conservatori, in ottobre sceglierà  i dirigenti del prossimo decennio. Gli Usa eleggeranno il loro presidente. Il Giappone del dopo crisi-atomica di Fukushima sarà  costretto ad ennesime elezioni anticipate. La Corea del Sud, sconvolta dall’arresto del fratello di Lee Myung-bak, andrà  a presidenziali che vedono favorita la figlia dell’ex dittatore Park Chunghee. La Birmania di Aung San Suu
Kyi, abolita la censura sui media, promette di inaugurare l’era del dopo-generali. Il cortocircuito dei nazionalismi elettorali incrociati, parto di una globalizzazione impoverita dalla crisi dell’unione tra capitalismo e democrazia, diventa dunque la miccia che fa precipitare gli scontri storicizzati tra gli autoritarismi del Pacifico nel contemporaneo conflitto tra le grandi economie del pianeta. Pechino, Taipei, Tokyo e Seul lottano a colpi di sbarchi patriottici dimostrativi e incrociati, tra le
isole Diaoyu e l’arcipelago di Takeshima, per riconquistare i sostenitori interni delusi con il rancore esterno di una seconda guerra mondiale mai conclusa.
Vecchie stragi, vecchi simboli, vecchie “comfort women”, vecchie bandiere e vecchi approdi: ma obbiettivi e poteri del tutto nuovi, con mercati e multinazionali per la prima volta alla conquista dell’Asia e del Pacifico gestendo in modo diretto classi politiche e vertici militari. Sugli arcipelaghi delle materie prime, come
sulle rotte marittime delle merci, fino ad oggi ci si è fermati un passo prima del precipizio, bruciando carriere di ambasciatori, trasferendo basi ed esibendo esercitazioni navali. La Cina assicura di voler risolvere i contenziosi per via pacifica e bilaterale. Il Giappone frena gli estremismi patriottici dei governatori di Tokyo e Osaka. La Corea del Sud rinuncia alla Corte internazionale per gli scogli delle Dokdo. Le dieci nazioni Asean, nonostante in giugno per la prima volta in 45
anni non abbiano concluso il vertice sottoscrivendo un documento comune, promettono di non ricorrere ai siluri per vincere la gara di gas e petrolio off-shore. E’ evidente però che sulle isole dell’Estremo Oriente, da Uotsuri a Okinawa e da Taiwan alle Marianne, si consumano oggi i tre scontri decisivi del pianeta: per le leadership politiche nelle superpotenze, per il controllo di energia e consumi, per il duello del secolo tra Cina e Usa. Pechino acquista i debiti dei concorrenti, Washington finanzia gli alleati.
Anche gli ex pescatori di Sansha capiscono che i successori di Mao non fonderebbero una prefettura blindata e nel vuoto, per trasportare villeggianti da Singapore ed esporre 5 mila tonnellate di falsi marchi del lusso europeo in nuovi shopping center nel nulla dell’oceano. La Cnooc, colosso cinese del petrolio pronto a investire 15,1 miliardi di dollari per acquisire il concorrente canadese Nexen, trampolino per gli accordi con Exxon e Shell, tra Yongxing e Hong Kong ha appena avviato la prima perforazione dell’Asia in acque profonde. La Casa Bianca è trasalita. Bandiere e divise in superficie, trivelle e condutture in fondo al mare. Non si mangia pesce sugli arcipelaghi contesi del Pacifico. Fu Zaichou, inviato qui dieci anni fa da Wanning con due trappole per aragoste, ora vende schede telefoniche ai pionieri di Pechino. Grida che la patria deve riprendersi i «sacri territori perduti», ma sottovoce suggerisce che «se i traditori di Hanoi rimettono il naso sugli atolli, ci impesteremo di Marines a stelle e strisce». Alle 15.30 la Qiongsha-3 risalpa per Hainan. A bordo, solo l’equipaggio. Gli altri restano sulla nuova frontiera del mondo e adesso giurano di sapere perché nemmeno certi loro pensieri su di noi se ne vogliono andare.


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