Keynes, un impolitico molto politico. La vittoria di una teoria controcorrente

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L’autunno si preannuncia durissimo per il mondo del lavoro, sia per chi un lavoro ce l’aveva, sia per chi continua a non trovarlo. Ma a chiedere l’intervento dello Stato nell’economia reale, finora, ci aveva provato soltanto la Fiom e pochi altri. La realtà  è più dura dei tabù. Le previsioni per l’autunno e in primo luogo l’inestricabile nodo dell’Ilva di Taranto (se non interviene lo Stato, lì, non ci sarà  mai alcuna bonifica) hanno spinto Susanna Camusso a fare proposte fin qui considerate inammissibili. «Lo Stato intervenga comprando quote delle aziende in difficoltà  e le ricollochi sul mercato a crisi passata», magari attivando la Cassa Depositi e Prestiti. E la faccia di Keynes rispunta nel dibattito politico-sindacale italiano. Accadono raramente simili coincidenze. Negli anni Trenta, si verificarono insieme catastrofe pratica, la crisi del ’29, e rivoluzione teorica. Senza questa coincidenza la catastrofe economica sarebbe stata prima digerita, e poi rimossa. Senza il ’29 Keynes non sarebbe diventato Keynes. E le conseguenze della Grande Depressione sarebbero state molto diverse senza di lui.
I consigli di tutti gli economisti del tempo erano: aspettare, aspettare ed ancora aspettare. La depressione, come tutte le altre prima, sarebbe passata. Il sistema si sarebbe «purificato» dalle imprese inefficienti; i salari sarebbero stati tagliati, secondo i consigli dei teorici ed i desideri dei pratici. Keynes, invece, nel 1930 e ’31, al Macmillan Committee e all’Harris Foundation, metteva in guardia da quest’impostazione. Non fu ascoltato subito. Ma il segno rimase, e preparò la svolta del 1936, la Teoria Generale. 
Senza di lui, anche un politico lungimirante come Roosevelt difficilmente avrebbe potuto muoversi contro l’opinione di una professione economica compattamente ortodossa. Quantomeno per alcuni anni dopo il ’29, o magari parecchi, senza Keynes le cose probabilmente sarebbero andate come delineato sopra, per il banale motivo che economisti e politici sarebbero stati magnificamente d’accordo nel farle andare così; come possiamo vedere anche oggi. 
Ma chi era Keynes? Tutti lo conoscono come economista. Eppure la sua teoria ebbe un grande impatto politico. Fu per caso? O il Keynes politico è, per così dire, il substrato, la premessa dell’economista? Si può capire l’economista senza affrontare il politico? Chi scrive pensa, ovviamente, di no.
Grandi Promesse
John Maynard Keynes era un predestinato il cui destino finisce col cambiare.
Chiunque abbia avuto tra le mani una relazione su di un allievo di public school, Eton o Harrow, o di università , Cambridge od Oxford, quantomeno fino alla seconda guerra mondiale, vede bene che compito di quel sistema educativo fosse di capire subito, fin dagli incerti inizi, le potenzialità , i pregi e i difetti di quegli alunni, peraltro pochi, destinati, per estrazione e per le scuole che frequentavano, a diventare futura classe dirigente. Naturalmente, nulla era scontato; ci sarebbero state prove da superare, capacità  da sviluppare e confermare, non tutti ce l’avrebbero fatta. Ma se qualcuno, in quegli anni, era leader a Eton o Harrow, era in grado di imporsi, farsi rispettare, con la pura forza della personalità , dai rampolli dell’aristocrazia del sangue e del denaro britannici, campioni di self-confidence e arroganza, ed era candidato naturale a diventarlo, anche dopo, a Westminster. Keynes era stato uno di quelli. Tuttavia, nonostante le sue, indubbie e riconosciute, capacità  di leadership, la sua carriera politica non realizzò le aspettative. 
Autore di un saggio giovanile su Burke – il campione anti-giacobino britannico durante la Rivoluzione Francese – Keynes iniziò la carriera politica nell’entourage di Lord Asquith, capo dell’ala moderata del partito liberale, che stava conducendo una lunga faida politica con Lloyd George, rappresentante dell’ala riformatrice. Già  verso la fine dell’Ottocento, grazie a riforme elettorali, erano stati integrati nelle istituzioni ampi strati sociali. Da questo ampliamento era venuto anche consenso per l’Impero. Ma la linea «riformatrice liberale» aveva creato tensioni, come testimoniano i celebri e combattuti bilanci di Lloyd George come Cancelliere dello Scacchiere: quello del 1909, detto il People’s Budget, e quello del 1911, che inaugurarono il welfare in Inghilterra nel ‘900. Il conflitto, ripetuto durante la Grande Guerra, tra queste due ali, porterà  più tardi al crollo del partito liberale e al bipartitismo moderno. 
Sotto la protezione degli Asquith, Keynes diventerà  capo-redattore, insieme all’amico Hubert Henderson, del New Stateman and Athaeneum, la rivista politico-culturale del partito liberale. Non sarebbe stato facile immaginare, agli inizi, che la sua carriera politica non avrebbe avuto seguito. Eppure, esistono eventi che in qualche modo fanno deragliare da percorsi, se non proprio progettati, quantomeno predisposti dalle circostanze. Ce ne sono due nella carriera politica di Keynes: l’esame di ammissione al Civil Service nel 1906 e la Conferenza di pace di Versailles nel 1919.
Da Londra a Versailles
Uno scacco per Keynes: il secondo posto all’esame per il Civil Service, nel 1906, dopo gli studi a Cambridge. Il primo posto avrebbe aperto la carriera al Tesoro, che portava, naturalmente, a contatto con l’alta dirigenza politico-amministrativa, gli uffici del Cancelliere dello Scacchiere, e ai vertici della discussione politica. Lo si vide nel 1930 quando Ralph Hawtrey, un suo vecchio amico, contribuì a elaborare la cosiddetta Treasury View, che confutava un progetto di lavori pubblici lanciato da Lloyd George nella campagna elettorale, e sostenuto da Keynes in un pamphlet dove troviamo la prima formulazione di una teoria, i cui sviluppi sarebbero stati resi famosi dalla Teoria Generale: il moltiplicatore. Un posto simile era molto attraente per Keynes. Da lì, era pensabile, grazie alle sue aderenze politiche, un salto dentro la politica ad alti livelli. 
Il secondo posto gli valse, invece, l’India Office che, però, non offriva le stesse possibilità . Da quell’esperienza Keynes trasse, tuttavia, un frutto importante: il libro India Currency and Finance. Keynes vi sottopose a critica il sistema monetario internazionale, il gold standard, dal funzionamento ritenuto automatico, incarnazione economica perfetta del credo politico liberale sull’assoluta autonomia del mercato. Secondo Keynes, invece, lungi dall’esser automatico, il sistema funzionava grazie ad un regolatore centrale dissimulato: la Banca d’Inghilterra. L’automatismo apparente si rivela discrezionale. Il mercato non funziona senza perni istituzionali. La decisione come deus absconditus del mercato. L’eresia fa capolino. Forse, inconscia.
Alla fine tornò a Cambridge, nel 1909, chiamato dal maestro Alfred Marshall, il padre dell’economia politica dell’epoca, a insegnare economia monetaria. Ma si trattava, allora, solo di una ripartenza; Keynes non fu mai personaggio di «secondo piano». Appena trentenne, allo scoppio della guerra, fu membro di una delegazione per discutere di finanza con gli Alleati, composta solo dal Primo Ministro, dal Governatore della Banca d’Inghilterra e da lui. Poi, alla fine, fu esperto economico della delegazione inglese alla Conferenza di Pace di Versailles, nel 1919. Ma non gli portò fortuna.
Le conseguenze economiche della pace fu scritto di getto nel 1919 dopo la Conferenza di Versailles, contro gli esiti vessatori del Trattato, la «pace cartaginese» nei confronti della Germania sconfitta. Le cifre sulla situazioni economica della Germania, che Keynes usò per argomentare l’eccessiva pesantezza delle riparazioni, non sono essenziali. Non è quello il cuore dell’argomento, bensì il cambiamento dei rapporti politici dopo la Grande Guerra, dentro i paesi, e tra paesi. Cuore politico di meccanismi economici.
Keynes sentiva che qualcosa era cambiato nel rapporto tra governanti e governati. Lo espresse in quel passaggio delle Conseguenze in cui dichiarava chiusa l’epoca del «doppio inganno», per cui una parte ristretta della società  poteva legittimare l’appropriazione della parte maggiore del prodotto con le necessità  dell’accumulazione a patto di non consumarla essa stessa; facendo così accettare l’ineguaglianza all’altra parte. Il liberalismo inglese riformatore, da Gladstone a Lloyd George, non bastava più.
In questo quadro, l’intenzione delle potenze vincitrici di mettere in ginocchio la Germania era giudicata da Keynes politicamente pericolosa. Chi avrebbe dovuto sopportare l’onere? L’avrebbe accettato? Il pagamento avrebbe creato disordine nel meccanismo economico globale, come fu? Secondo lui, le conseguenze economiche di quelle riparazioni sarebbero state talmente insostenibili da mettere in discussione l’ordine politico in Germania e in Europa. Keynes temeva la «guerra civile tra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione». La Rivoluzione d’Ottobre era una minaccia per lui come per gli altri, ma la ricetta era diversa. Alla fine un sovvertimento ci fu, il nazismo, di portata e tipo inattesi da tutti, Keynes compreso; ma il punto di partenza del processo fu l’insostenibilità  delle condizioni di pace. L’idealista Keynes era stato più realista dei politici rusé di Versailles.
L’ordine economico e politico era stato mandato in frantumi dalla Grande Guerra. Ma nei gruppi dirigenti non vi era questa consapevolezza. Piuttosto si pensava che bastasse in qualche modo restaurare nelle società  comportamenti pre-bellici, per ritornare alla situazione precedente. Tutti, in tuba e stiffelius, ad agognare il ritorno a Itaca, il mondo pre-1914. Lui, trentenne, l’aveva visto affondare, e aveva intravisto i lampi di una nuovissima, ed incompresa, tempesta.
Questo articolo è una versione ridotta del saggio apparso su Dossier di Progetto Lavoro – Attualità  di Keynes, con il titolo “Keynes politico: il diavolo e l’acqua santa”.


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