In piazza per non tornare al Medioevo

by Sergio Segio | 21 Agosto 2012 5:56

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TUNISI. Le donne che affollavano il palazzo dei Congressi, lunedì scorso, dopo la cena del ramadan, non smettevano di gridare entusiaste mentre il regista Raja Farhat leggeva il Codice dello statuto personale che nel 1956 aveva fissato i diritti della donna tunisina. In migliaia sono sfilate poi sulla via Bourghiba. Donne a capo scoperto, donne velate, bambine con cartelli con su scritto “Gannouchi non toccare i diritti della mamma”, ragazze con il foulard rosso come la bandiera nazionale. Rosso è il colore della rivoluzione che diciotto mesi fa divampò in Tunisia e questa, diciotto mesi dopo, era la più grande manifestazione da allora. Le donne in Tunisia hanno più diritti che in ogni altro paese arabo.Il fondatore della Repubblica Bourghiba, che certo non era un liberale e — come accadeva spesso in quegli anni negli Stati postcoloniali — creò una dittatura, riconobbe però alle donne la parità , convinto che questo fosse un passaggio obbligato per fare della Tunisia un paese moderno. Da allora le tunisine possono chiedere il divorzio senza aspettare anni come succede in Egitto, non possono essere ripudiate, possono dare il proprio nome al figlio se sono nubili, e possono abortire; la poligamia è proibita, e i matrimoni di ragazze adolescenti si sono ridotti nel tempo al 2 per cento. Si è formata così in Tunisia una classe urbana di donne scolarizzate, professionalizzate, che anche per i despoti come Ben Ali erano un fiore all’occhiello da mostrare all’occidente e far credere di essere progressisti. Una parola, “complementa-rietà ”, ha portato in piazza queste migliaia di donne, e anche molti uomini, nel giorno in cui in Tunisia si celebra la Giornata della Donna: quel 13 agosto del 1956 che vide l’entrata in vigore del Codice di Statuto Personale (quest’anno il governo aveva passato ufficialmente sotto silenzio questa data, ma è stata la società  civile a organizzare la manifestazione) . Proprio alla vigilia della Giornata della Donna, infatti, la commissione costituente aveva presentato un progetto per l’articolo 28 della futura costituzione, in cui al posto della parola parità  se ne legge un’altra: complementarietà . Tradotto in chiaro: la donna viene definita solo in rapporto al maschio. Da sola non esiste più. «Lo Stato garantisce la protezione dei diritti della donna e delle sue conquiste — nella famiglia secondo il principio della complementarietà  con l’uomo, e nello sviluppo del Paese al suo fianco»: questo il testo della proposta. «Ancora è solo uno schizzo, un pre-progetto», si difende Mahrzya Laabadi, deputata di Ennahda e vicepresidente dell’Assemblea costituente, «che va letto nel contesto di altri articoli, come il 22, che dichiara uomini e donne uguali davanti alla legge». Mahrzya accusa gli altri partiti di fomentare la paura dell’estremismo. Ma le donne tunisine hanno buone ragioni per sospettare che qualcuno voglia limitare i loro diritti. «Perché la commissione non ha lasciato inalterato il testo com’era stato formulato nel Codice di Statuto Personale?», chiede Noura Borsali, autrice di “La sfida ugualitaria” e membro della Commissione di transizione che aveva lavorato fino all’entrata in vigore dell’attuale governo. Noura arriva trafelata a tarda notte in un caffè sulla via Bourghiba dopo una giornata trascorsa in visite a parenti vicini e lontani, come è costume nel giorno dell’Eid el Fitr, la fine del ramadan. Non voleva rinunciare a far sentire anche all’estero la voce delle donne tunisine, dice, cercando frescura in una limonata ghiacciata. «La parola parità  deve entrare nella costituzione, il CSP non va toccato. Qui non si tratta solo di passare dalla dittatura alla democrazia: si tratta di decidere quale società  vogliamo avere, e quale posto vi avranno le donne. Siamo state in prima fila nella rivoluzione, e certo non per perdere i diritti di cui avevamo goduto perfino durante la dittatura». Questi diritti sono ora in pericolo perché il partito islamico moderato Ennahda, che da ottobre guida il governo, è in un dilemma. Da una parte ha bisogno, alle future elezioni previste per la primavera, dei voti del centro, dell’élite urbana che in ottobre ha votato per Gannouchi fidando nelle sue promesse che i diritti acquisiti delle donne o dei laici non sarebbero stati compromessi. Dall’altra ha una parte della propria base elettorale sempre più attratta dalla predicazione radicale dei salafiti. Il primo agosto Ennahda ha presentato alla costituente una proposta di legge sulla blasfemia, che definisce blasfemi e punibili con multe e mesi di prigione qualsiasi parola o gesto che possano «ferire i sentimenti religiosi». Intanto in tutto il paese cresce lo scontento perché il governo perde tempo prezioso nei tentativi di bilanciare democrazia e religione invece di affrontare i drammatici problemi economici del paese. Alle elezioni di ottobre i partiti radicali non erano stati ammessi, ma negli ultimi mesi i salafiti hanno già  avuto il permesso di fondarne due. Il sole picchia implacabile sulla strada polverosa davanti all’ufficio postale di Sidi Bouzid, dove un monumento ricorda il gesto disperato di Mohammed Bouazizi, il giovane che vendeva frutta per mantenere la madre e tre sorelle e che si dette fuoco nel dicembre del 2010 per protestare contro le angherie delle autorità  e l’impossibilità  di guadagnarsi da vivere. La città  è vuota, non un ristorante aperto, e non solo perché è il giorno dell’Eid ma perché l’economia è ferma, ci dicono. Il monumento rappresenta un carretto da venditore ambulante intorno a cui ci sono delle sedie rovesciate, simbolo della caduta del regime di Ben Ali. È il luogo simbolo della primavera araba. Il gesto di Bouazizi è il fanale che sta all’inizio del movimento rivoluzionario che di paese in paese si è poi propagato in tutto il mondo arabo. La settimana scorsa i sindacati hanno indetto qui uno sciopero generale. Nelle cosiddette “zone sfavorite” della Tunisia profonda, non raggiunte dal turismo e dalle attività  economiche costiere, la disoccupazione ha raggiunto ormai il 70 per cento. Ma anche sulla costa, che l’estate scorsa aveva beneficiato dell’esodo dei ricchi libici e dove era appena ricominciato anche il turismo occidentale, la situazione economica è disastrosa. I disordini provocati dai salafiti negli ultimi mesi hanno impaurito i turisti e gli investitori stranieri. E le prospettive economiche dei giovani, studenti e diplomati, che erano stati il perno della rivoluzione, sono ulteriormente peggiorate. «Sidi Bouzid ha un problema in più rispetto ad allora, tutta la Tunisia ce l’ha», dice uno studente d’ingegneria che vive a Tunisi ed è tornato a visitare la famiglia per la festa dell’Eid. Accenna al banchetto di un gruppo di salafiti installato a una decina di metri dal monumento. Da quando un partito islamico è al governo i salafiti hanno aumentato il loro peso anche in Tunisia. In queste zone sono gli unici ad avere soldi,che arrivano, dicono tutti, dall’Arabia Saudita. Di lì arrivano anche i nuovi imam che con la forza buttano fuori dalle moschee i vecchi imam che c’erano prima e prendono il loro posto. Non solo in provincia, perfino nella capitale. Con i soldi sauditi i salafiti creano soprattutto asili e nidi d’infanzia, dove i bambini fin da piccolissimi vengono separati per genere. Si tratta di scuole coraniche sottratte a qualsiasi controllo dello Stato. «Anche questo deve cambiare presto», mi dirà , di ritorno a Tunisi, Maya Jeribi, presidente del partito repubblicano. «I salafiti hanno una strategia di lungo periodo. Cominciano dai ragazzini».

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