Ilva e Taranto, salviamole entrambe

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Anche gli eccessi polemici e la violenza comunicativa di una parte dell’ambientalismo hanno generato disorientamento e paura. Sullo sfondo, e sotto i piedi di una comunità  non virtuale, la lenta e lunga stratificazione di veleni, quel «cumulo» che è quasi l’archivio di un pezzo di storia sociale dell’industria e dell’ambiente. 
Questo è accaduto in quasi un secolo di modernizzazione e di trasformazione dell’Italia da economia prevalentemente rurale a economia prevalentemente industriale. 
Taranto, per la sua collocazione geo-politica nel cuore del Mediterraneo, è stata una calamita «naturale» dei finanziamenti destinati al processo di industrializzazione del Mezzogiorno. Città  e industria crescono l’una sull’altra, senza alcun profilo di programmazione urbanistica e sociale, e dalla pancia di quel siderurgico di Stato, chiamato allora Italsider, nasce una nuova classe operaia. La Taranto «proletarizzata» si contrappone alla Taranto delle plebi promosse a clientele. Quando quel soggetto operaio sarà  aggredito dalle prime drastiche ristrutturazioni aziendali, quando la dimensione del lavoro subordinato smetterà  di essere un pilastro cruciale della costruzione culturale di una comunità , allora il capoluogo ionico precipiterà  nell’epopea di Giancarlo Cito, cioè in una rete di affabulatori reazionari e contigui alla malavita. Il mutamento del panorama sociale ha riverberi forti sul panorama politico e sulle sue molteplici ombre, come se il restringimento del perimetro operaio rendesse più agevoli le incursioni criminali.
C’è un Sud in cui la mafia appare come surrogato della politica e della democrazia: e in questo vortice la bella Taranto si è smarrita per diverse stagioni, finendo anche nel precipizio di quel dissesto finanziario da cui è riuscita a risollevarsi in soli quattro anni. Quando si corre con il pensiero dalla struggente bellezza del centro storico o del mare ai grandi camini con le loro ciclopiche lingue di fuoco, occorre sapere che gli ingredienti del conflitto tarantino, i beni che sono entrati pesantemente in gioco, richiedono una visione meno astratta del richiamo paradigmatico, del modello esemplare a cui ispirare la teoria: perché qui siamo tutti convocati a misurarci sulle cose, su un’agenda di scelte nette, su un cronoprogramma svincolato, se possibile, dalle bardature della burocrazia. Siamo ad un passaggio d’epoca, ma un «passaggio» non è un tempo morto, non è un vicolo cieco del fare, è un processo, una transizione, non è un atto mummificato nella gloria, è un parto con doglie. 
Pongo una questione: perché si ritiene ormai definitivo e mortale il conflitto tra industria e ambiente, proprio ora che lo sviluppo tecnologico consente costanti abbattimenti di tutte le emissioni inquinanti di natura industriale? Ne aggiungo un’altra, più di natura economica: si ritiene utile e progressista congedare definitivamente il nostro Paese dalla sua storia industriale? Si pensa che sia indifferente per il nostro futuro produttivo abbandonare la siderurgia o la chimica? E la critica del capitalismo finanziario non è anche innervata in quella «cultura del lavoro» che restituisce dignità  sociale e giuridica a chi lavora, a chi produce manufatti o idee, a chi crea ricchezza trasformando la natura? Ne aggiungo ancora una, di domande, più di natura ambientale: ma se alla fine il tema da collocare in cima ai nostri pensieri è il surriscaldamento globale del pianeta in cui abitiamo o anche la questione della finitezza delle risorse naturali, il nostro orizzonte di responsabilità  deve limitarsi ad affidare ad altri, magari in altri continenti meno avvezzi ai monitoraggi ambientali, l’onere di produrre acciaio? Sono domande che pongo al netto di un’idea radicale, che condivido, di ripensamento critico di quel modello economico che è stato fortemente segnato dai luoghi comuni di un industrialismo cieco e di un produttivismo sempre più alienante e insostenibile. 
A Taranto in questi anni è andata in scena una storia insieme semplice ma anche di straordinaria complessità : si è rotto il muro del silenzio che ha confinato la malattia e la morte nella dimensione privata, e ci si è collettivamente interrogati sul valore reale che attribuiamo alla salute e alla vita umana nel recinto del ciclo produttivo. Il mondo del lavoro è un mondo governato solo dalla giurisdizione del profitto? Noi abbiamo detto di no. Contrastando le imprese che operavano e operano in spregio alle leggi e che ignorano i diritti e il diritto. Ma la complessità  non è un’invenzione del diavolo. I limiti emissivi previsti dall’Organizzazione mondiale di salute sono assai più rigidi di quelli previsti dalle direttive europee. Le norme relative all’impiantistica industriale non sono sincronizzate con la legislazione sulla qualità  dell’aria. Noi in Puglia ci siamo fatti carico di coprire un vuoto normativo, una vacanza del legislatore nazionale. E, subito dopo aver dotato l’Arpa di una struttura organizzata, di più adeguati organici e di mezzi moderni di monitoraggio, abbiamo preso atto degli esiti dei campionamenti e abbiamo varato leggi pesanti: per l’abbattimento delle diossine e dei furani, del benzopirene, del Pm10 e delle polveri sottili. Non c’è nessun altro soggetto pubblico che abbia fatto ciò che ha fatto la mia regione. Si lavora sulle evidenze scientifiche e non sull’immaginazione. Si lavora per rendere compatibile la fabbrica con la città : si può dissentire da questa prospettazione, considerarla inadeguata o ancora ipotecata dalle ombre dell’industrialismo. 
Capisco chi considera ontologicamente errato il tema della eco-compatibilità  dell’Ilva: purché non si riversino su chi è impegnato a salvare sia il lavoro che la salute accuse infamanti di «intelligenza col padrone». La sostenibilità  non è un abracadabra, ma una sfida a più livelli. Sostenibilità  plurima, capace di evocare con pienezza il respiro della vita, ma anche l’esercizio concreto dei diritti. Io ho pensato e penso che la chiusura della fabbrica sia innanzitutto una scelta non sostenibile socialmente e assai pericolosa sul piano di quell’ambientalizzazione che rischia di sfumare dall’orizzonte di una città  spezzata e impoverita. Molti improvvisati precettori e qualche maldestro speculatore si sono agitati scompostamente nel teatro di questo spicchio pregiato e sfregiato di Magna Grecia: noi abbiamo provato a svolgere un ruolo non notarile, abbiamo – come istituzioni pugliesi – affrontato la famiglia Riva con serietà  e durezza: aprendo un conflitto sulla sicurezza all’interno del siderurgico (dove è stato collocato un ambulatorio Inail), abbiamo indicato per legge i compiti da svolgere per liberare i Tamburi e Paolo VI e tutta Taranto dalla sensazione di vivere in una morsa, di fumo e di polvere. Lo sguardo di chi governa deve pesare ciascuno dei beni da tutelare, deve custodire tutte le promesse di futuro, ma soprattutto deve sentire la responsabilità  di evitare che vinca il caos, e che l’ardire utopico dei pensieri lunghi si pieghi alla disperazione di un presente immobile, quasi divorato dal suo passato.


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