Il serpente cambia pelle, Keynes liberale non ortodosso

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Il successo si paga, si dice. Le ripercussioni sulla carriera politica di Keynes del successo mondiale del libro che attaccava la pace di Versailles, Le conseguenze economiche della pace, sono controverse. Secondo Harrod, il suo primo biografo ufficiale, si trattò di una messa al bando, da cui si riprese solo, quantomeno, dieci anni dopo. Secondo Skidelsky, autore di una sua recente monumentale biografia, si trattò solo di un passeggero cono d’ombra. Da quel momento, comunque, Keynes divenne esperto nell’arte di influenzare la politica a «distanza di braccio» preferendo, come diceva, farsi rubare le idee.
Ma bisognò attraversare gli anni Venti perché, come disse Keynes di se stesso, «il serpente cambiasse pelle». Alla fine, dopo una lunga crisi il partito liberale, nel 1931, si divise in tre spezzoni. Nacque il bipartitismo moderno: Labour e Tory, lasciando Keynes senza alcun partito di riferimento. Non era laburista, né avrebbe mai potuto esserlo. Ciò che, peraltro, impedì sempre a Keynes, partendo dalla moderazione politica della gioventù, di approdare ad un soddisfatto conservatorismo della maturità , fu sempre l’intelligenza mobilissima, negazione vivente di self-complacent pigrizia intellettuale, che lo impegnò fin da giovane a rafforzare, come lui stesso disse, le mura traballanti della fortezza in cui era nato. Ma che, rigettando parti sempre più ampie di ortodossia, lo portò ad una rivoluzione teorica che, per la prima volta nella storia dell’economia politica, sovvertiva il segno politico fin lì implicitamente sotteso alla teoria. 
Inizia la scissione
Gli anni Venti si aprirono e si chiusero con due eventi che sono rimasti nell’immaginario mondiale. Si può dire che la posizione assunta nei loro confronti allora e, ancora oggi, la scelta di uno dei due come, per così dire, mito fondativo delle proprie scelte economiche definisce posizioni politiche contrapposte. Si tratta dell’iperinflazione tedesca del periodo 1921-23, e della Grande Depressione seguita al crack dell’autunno 1929.
Da allora a oggi, la posizione liberale nei confronti dell’iperinflazione tedesca è quella esposta all’epoca classicamente dall’italiano Bresciani Turroni, che «solo l’incessante aumento nell’emissione di moneta legale… rese possibile l’incessante crescita dei prezzi». Quindi, solo l’arresto dell’emissione monetaria da parte del Governo avrebbe potuto arrestare l’inflazione. Keynes, invece, sostenne nel novembre 1922 che: «la svalutazione della moneta tedesca…non si può curare solo con la riduzione di M» (la quantità  di moneta in circolazione). Nel suo libro di poco posteriore, la Riforma monetaria del 1923, radicalizzando l’analisi monetaria del suo maestro Marshall, trattò l’iperinflazione tedesca come il risultato del gioco tra azione del Governo e scelte degli agenti. La differenza non era solo di «teoria» economica, ma politica: per Keynes non c’era un solo colpevole, lo Stato. 
Inoltre, per Keynes non era solo l’inflazione a costituire un, o meglio, il pericolo per l’economia; anche la «deflazione», la caduta dei prezzi, con il suo corollario di caduta dell’attività  economica e disoccupazione, doveva essere considerata un problema di gravità  quantomeno eguale a quella dell’inflazione. Per tutti gli altri non lo era. Su questa base attaccò il governo Churchill per il ritorno alla parità  dei cambi pre-bellica; il titolo del pamphlet è eloquente: Le conseguenze economiche di Mr. Churchill. Il punto di partenza era sempre lo stesso: le Conseguenze politiche della guerra.
Dopo il 1923, elaborò tra mille incertezze, e pubblicò solo nel dicembre «30, il suo primo grande testo di teoria monetaria, il Trattato della moneta. Tra l’inizio e la fine del lavoro, il grande boom americano degli anni Venti, imploso nell’autunno 1929. Questo evento incise profondamente su di lui: ne riscrisse le parti teoriche ma, soprattutto, gli fece afferrare quella che da allora sarà  un’idea fondamentale, di grande momento teorico e politico: che un sistema economico può allontanarsi dall’equilibrio, e la caduta del reddito e dell’occupazione arrivare a livelli catastrofici, senza che vi siano forze che ve lo riportino, secondo il dogma ortodosso. Qui lo Stato diventa la soluzione, e il mercato il problema. Armato di questa teoria entrò nella discussione sullo slump. Ma la teoria era ancora troppo confusa; troppi elementi passati la appesantivano, e il punto centrale non era affrontato con chiarezza. Le discussioni pubbliche furono inefficaci mentre, in privato, giovani brillanti economisti di Cambridge, Piero Sraffa, Joan Robinson e Richard Kahn ne contestavano le debolezze teoriche. Il Trattato si era rivelato un Glorioso Fallimento. Il serpente aveva «cambiato pelle»; ma senza convincere. 
Farewell liberismo
Fu solo la raggiunta maturità  nella teoria economica, la Teoria generale del 1936, e il suo successo, a provocare lo strappo finale tra Keynes e il tradizionale liberalismo inglese, politico ed economico. La Teoria generale demoliva due pilastri del liberalismo economico: primo, che il mercato, lasciato a se stesso, sia in grado di raggiungere sempre il pieno impiego dei mezzi di produzione e della forza-lavoro; secondo, che il risparmio sia una virtù – e l’interesse il suo premio. Ambedue dogmi, dopo Adam Smith. Per lui, invece, l’interesse era solo l’incentivo a cedere moneta per chi la deteneva. 
Il suo amico di sempre, compagno delle battaglie politiche liberali, Hubert Henderson, non accettò mai l’idea che il comportamento dei mercati finanziari potesse frenare l’investimento e la crescita. I suoi due amici economisti, Ralph Hawtrey, del Tesoro, e Dennis Holmes Robertson, pur eterodossi prima di lui, non accettarono l’analisi né, tantomeno, la sua conseguenza, cioè la necessità  di un intervento dello Stato per sostenere l’occupazione. Nelle discussioni che seguirono, si vede bene che Keynes, convinto di aver afferrato il nucleo più profondo del funzionamento dell’economia capitalistica, non si rese conto appieno dello strappo politico, seppure implicito, che la Teoria Generale aveva provocato. Forse lo sottovalutò; o forse pensò, sottacendolo, di poterlo aggirare, come suo solito, con la persuasione. 
Radicale nella teoria economica, ma non socialista. Il rapporto con i laburisti non fu mai facile. La proposta di Keynes, alla vigilia della seconda guerra mondiale, di congelare parte dei salari per frenare l’inflazione bellica da eccesso di domanda, per poi pagarla alla fine della guerra, per ovviare alla caduta della domanda di guerra, non era irragionevole. Stavolta, però, Keynes non aveva colto l’incipiente cambiamento dei rapporti di forza nella società  inglese. Per combattere il nazismo era necessario un compromesso con Labour e sindacati. I lavoratori non volevano essere i soli sacrificati nello sforzo bellico, come durante la prima guerra mondiale; esigevano che esso ricadesse su tutta la popolazione. Contro la proposta di Keynes chiesero, ed ottennero, il razionamento.
Ma l’ortodosso era cresciuto radicale per volontà  di capire, per approntare i mezzi per superare la crisi. Quella rivoluzione teorica trovò una sponda in una coraggiosa riforma politica, dall’altra parte dell’Atlantico. Congiuntamente, Keynes e Roosevelt cambieranno il mezzo secolo a venire. Era nato al centro del centro del potere economico e politico mondiale; non credeva che la sua caduta fosse all’ordine del giorno. Già  prima, e più che mai dopo il 1929, pensava che il capitalismo, più che dai suoi nemici, andasse difeso soprattutto dai suoi amici. 
Un mondo affonda
Al giovane Keynes, esteta intellettualmente dissacratore, e politicamente moderato, segue l’ultimo Keynes, Lord di Tilton, membro della Court of Directors della Banca d’Inghilterra, appagato di essere riconosciuto da quel suo establishment, di cui disprezzava i limiti intellettuali, come li può disprezzare uno che si sente nato per guidarli, perché sono troppo stupidi per capire. In mezzo, una vita di fuga dall’ortodossia. 
Il paradosso finale del Keynes politico fu che la sua teoria sarebbe stata l’ossatura del compromesso politico-economico centrato sui laburisti che assicurerà , nel dopo-guerra, trent’anni di crescita mai sperimentata prima ed un miglioramento nel livello di vita di ampie masse popolari mai visto in precedenza. Ma è dubbio che lui, Keynes, fosse pronto ad accettarle alla pari come partner della decisione politica.
Keynes sapeva bene che il mondo della sua formazione era scomparso. Tutta la sua riflessione economico-politica, e l’opposizione che incontrò, derivava da questa sua lucida consapevolezza. Però, anche se la sua Britannia, che governava le onde, era scomparsa, lui continuava ad abitarvi spiritualmente. Per traghettarla nei tempi nuovi, Keynes si sottopose ad uno sforzo che ne minò la già  fragile costituzione. Robert Skidelsky ha narrato nel terzo volume della biografia di Keynes la sua battaglia epica, e perdente, a Bretton Woods nel 1944 (la Conferenza che fissò le regole del sistema monetario internazionale che durò fino al 1971), contro l’irremovibile determinazione americana di sostituire l’Inghilterra nell’egemonia mondiale, anche mettendola economicamente a terra in modo brutale; il gold standard era tramontato nel 1931, suonava l’ora del dollar standard.
C’è una coincidenza astrale tra la fine di quell’Inghilterra e la sua morte, che seguì di poco, nel 1946. Quell’Inghilterra e Keynes si appartenevano, e insieme scomparvero.


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