Il genio di Michaux e le lezioni ironiche contro il narcisismo

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Come parlare di un autore scivoloso e provocante come Henri Michaux? Da quale angolatura si può cogliere il suo estro sfuggente a ogni categoria? C’è sempre qualcosa d’inafferrabile negli scritti di questo filosofo-pittorepoeta belga, nato nel 1899 e morto nel 1984, di cui Adelphi pubblica ora in italiano
Passaggi, che nell’originale in francese uscì nel 1950. Sul versante della forma è un ibrido elusivo: va dal saggio alla parabola, dall’aforisma alla scansione in versi, dall’autobiografia all’analisi critica. E nei contenuti percorre temi giganteschi quali: il senso del dipingere, un fenomeno chiamato musica, la bellezza delle fisionomie femminili, l’essere bambini, la fugacità  dell’amore… Ma non si pensi a notazioni prevedibili, leziose, moralistiche o saccenti. Vedi il capitolo sulla natura. Scrive Michaux che le montagne spingono al suicidio, che la distesa dell’oceano è esasperante, che il gorgoglìo dei ruscelli è insensato per ripetitività  e che non c’è niente di più malvagio e cocciuto del vento. Chiaro?
Forse una chiave per esplorare uno degli scrittori in lingua francese più amati e misteriosi del Novecento – accostato a Jarry e a Rimbaud per l’indocile genialità  – sta nel suo aguzzo sarcasmo. Quando attacca dicendo: «In un secolo più di venti persone non ci stanno, di qui le grandi beghe della fama», prosegue regalandoci un ventaglio d’implacabili strumenti di derisione del narcisismo imperante in un’epoca attraversata dall’ossessione di seminare tracce del proprio io. E ci si chieda cosa c’è di più politicamente e socialmente attuale di un discorso come questo: «Tutto prende così facilmente una forma estremistica e coercitiva che, se venissi a sapere di una riunione moderata di persone moderate, decise a scambiarsi opinioni moderate in vista di un modesto miglioramento dei rapporti fra gli uomini e fra i popoli, neanche di loro mi fiderei, e guarderei con diffidenza soprattutto agli sviluppi del loro movimento verso il meglio, a tal punto gli uomini di questi anni mi sembrano inesorabilmente votati a rompere le scatole a tutti gli altri individui del nostro piccolo pianeta».
Michaux è così: un cronista lontano da esercizi egotici, che contempla con disincanto gli sforzi dell’umanità  per evolvere, competere, creare, conquistare e combattere. Non è partecipativo. Non vibra e non si commuove. Come Breton e i surrealisti, non dà  importanza alle cose. Ma a differenza degli altri artisti del ventesimo secolo, non dà  importanza neppure a se stesso. È un entomologo che osserva, con meticolosa irritazione, il brulicare di quegli insetti affannati verso un vano “voler essere” che siamo noi. Secondo Alfredo Giuliani, che tradusse per Bompiani l’irresistibile libro di Michaux.
Un certo Piuma, questo finissimo anticonformista somiglia a Buster Keaton, impassibile e rovinoso come l’eroe dei film muti. Non dà  neppure peso alla propria scrittura, sentita solo come un bisogno intermittente di perdersi in un flusso di germinazioni e specchi. Ha un io che sembra sottrarsi e scomparire. E che, quando si applica allo scrivere, ha l’atteggiamento di chi scaccia il ronzio di fastidiosi moscerini. Dalle sue strane distanze, fissa la vita come un accumulo di approssimazioni. Ma non è esoterico né presuntuoso il suo sguardo, grazie a un ésprit comique ludico e feroce. Con andamento sghembo e sprezzante del rischio, cammina su quell’ipotetico crinale che separa il visibile dalle sue sostanze non vedibili, e per questo più significative. Forse vuol dirci, come certe avanguardie pittoriche del Novecento (Michaux dipingeva stimolato dall’amicizia con Klee, Max Ernst e De Chirico), che il mondo è solo un’apparenza da sondare nei suoi livelli retrostanti. È il motivo per cui, nel suo frenetico vagare, giocò molto con l’uso degli allucinogeni (lo testimonia il suo Conoscenza degli abissi, edito in Italia da Quodlibet con l’introduzione di Emanuele Trevi). Furono numerosi e arditi anche i suoi itinerari “esterni”: viaggiò instancabilmente in diversi continenti, come dimostrano certi suoi diari – vedi Ecuador, pubblicato in italiano da Theoria – concepiti come spassosi seminari sullo smarrimento. E s’intitola Altrove( l’editore è ancora Quodlibet) una piccola e meravigliosa antologia di appunti sulle sue peregrinazioni in luoghi immaginari. A questo libro, nel ’67, Calvino s’ispirò per Le città  invisibili. Un altro filo rosso dei testi di Michaux raccolti in
Passaggi è la centralità  del suo rapporto con il corpo, nel quale affonda con la consueta autoironia. Descrive, per esempio, l’“indigesta emozione” che lo assalta durante una visita cardiologica, quando ascolta amplificato il suono del proprio cuore (“una pompa senza slancio”). In altre pagine si misura con il ballo, svelando che c’è in lui «un uomo sinistro che non vuol saperne dell’uomo destro». E a più riprese evoca l’estasi della caduta, immaginata o sognata, in qualche precipizio magnetico. In seguito registra le percezioni del caldo e del freddo. L’uno lo fa sentire accomodante e «velleitario in fatto di carezze», l’altro lo porta all’odio del prossimo e a «sfondare mentalmente le superfici». Così è Michaux: un illuminante disadattato in cerca di perfezioni; o un hippy desideroso di nitida razionalità , che lotta contro l’ingombro anche corporeo del suo essere.


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