IL FUTURO DELLA FOTOGRAFIA

by Editore | 5 Agosto 2012 8:02

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Nel mondo pre-computer degli anni Sessanta, certi giochi da tavolo promettevano “il brivido” della formula uno o del calcio comodamente seduti in salotto e uno slogan pubblicitario vantava le delizie della birra Davenports consegnata a casa, senza bisogno di andare al pub. Questo desiderio di rinchiudersi volontariamente agli arresti domiciliari ha trovato nel frattempo piena soddisfazione grazie a Internet, tanto che oggi confidiamo di poter ottenere, fare e comprare quasi tutto senza dover uscire dalle nostre tane. Ma chi avrebbe mai pensato di potersi cimentare nella fotografia di strada stando a casa?
Ho scoperto questa rivoluzionaria opportunità  grazie alla Menzione d’Onore conferita a Michael Wolf (tedesco, classe 1954) nell’edizione 2011 dei World Press Photo Awards per le immagini che ha elaborato attingendo agli scatti di Street View, senza staccarsi dallo schermo del computer. La cosa buffa è che Wolf si innamorò di questa funzione di Google dopo essersi trasferito da Hong Kong a Parigi – tradizionalmente uno dei luoghi per eccellenza della streetphotography – e aver scoperto che la città  non aveva nulla da offrirgli sotto il profilo fotografico. Paragonata ai paesaggi urbani dell’Asia, in continua evoluzione, Parigi era un mausoleo a cielo aperto, rimasto in gran parte invariato nei secoli. Da metà  a fine Ottocento l’Haussmannizzazione aveva trasformato radicalmente la città  ma al visitatore contemporaneo saranno familiari gli angoli della “vecchia” Parigi fotografati da Eugene Atget. Atget si guadagnava da vivere fornendo “documentazione agli artisti” e Wolf ha saputo cogliere il legame tra la minuziosa topografia urbana di Atget e la possibilità  che Street View offre di battere i marciapiedi in maniera esaustiva – anche se superficiale – per le proprie finalità  artistiche.
Wolf si accorse subito che lo sguardo distaccato della fotocamera di Street View registrava tutta una serie di “sfortunate contingenze”, per usare il titolo di una sua galleria di immagini, ossia alterchi e incidenti, pisciate e vomitate, botte e morti. Le auto su cui sono montate le fotocamere di Street View in genere passano inosservate – o quanto meno vengono snobbate – ma di tanto in tanto la gente reagisce alla loro presenza onnivedente mostrando il dito medio (da qui il titolo di una raccolta di Wolf, FY, acronimo per Fuck You, fottiti). Così Wolf ha passato al pettine chilometri e chilometri di noiosi, anonimi scatti, alla ricerca di istanti che potessero rivelarsi o meno determinanti, senza per questo rompere con la sua produzione precedente ma anzi, fornendole elementi di continuità .
Nella galleria Transparent City – La città  trasparente (2008) – Wolf aveva fotografato con il teleobiettivo i grattacieli di Chicago, un progetto estrapolato dal suo precedente studio di quell’architettura di densità  che tanto lo aveva affascinato a Hong Kong. Ne vennero fuori piatte geometrie urbane fatte di luce e linee, nella cui immensità  si scorge di tanto in tanto, arenata, una figura umana alla Hopper. Immaginate l’entusiasmo di Wolf nel vedere sullo schermo del televisore di uno degli appartamen-
James Stewart ne La finestra sul cortile, con il teleobiettivo puntato, come il suo, sulla vita di uno sconosciuto. (Fu il classico colpo di fortuna, oppure l’inquilino teneva quel fermo immagine sullo schermo per generosità , o a mo’ di ironico rimprovero, nei confronti di chi lo spiasse? O c’era forse di mezzo un qualche espediente alla Doisneau?) In seguito, esaminando altre immagini con la lente di ingrandimento, Wolf notò un particolare che gli era sfuggito al momento dello scatto: l’inquilino affacciato alla finestra di uno degli appartamenti di un palazzo in lontananza si era accorto di lui e gli mostrava il dito medio. I pionieri della cosiddetta candid photography– Paul Strand nelle strade, Walker Evans nella metropolitana – si dannavano per agire inosservati. Per Wolf invece il fatto di essere individuato e insultato – nel momento in cui le persone si rendevano conto di essere fotografate – si rivelò di stimolo e di invito. Dopo aver scoperto quella bizzarra figura grazie all’ingrandimento, Wolf si mise a scrutare ogni finestra, ogni appartamento della Città  Trasparente, in cerca di altri dettagli fortuiti. Chissà , forse la pellicola svelava immagini che nella normale osservazione della realtà  sfuggivano. I risultati in gran parte furono deludenti: noia, isolamento seriale di individui con lo sguardo fisso sullo schermo del televisore o del computer. Ma esiste anche la possibilità  inesplorata che fosse in atto un altro genere di reciprocità : è ipotizzabile che alcune delle persone concentrate sui loro computer stessero a loro volta lavorando su Street View per creare immagini.
La reazione alla Menzione d’Onore conferita a Wolf fu immediata – e in massima parte ostile. La sua opera veniva attaccata su due fronti. I moderati sostenevano che non era in nessun caso catalogabile come fotogiornalismo. I critici più aggressivi negavano a Wolf la qualifica stessa di fotografo. In risposta alla prima accusa obietto che la componente “notizia” delle immagini può aver carattere minimale (incidenti d’auto, risse, piccole vicissitudini) ma la modalità  di realizzazione delle foto fa notizia in sé ed equivale ad un’inchiesta aggiornatissima. Quanto alla seconda accusa, Wolf ha risposto sostenendo di rientrare in una lunga tradizione di appropriazione artistica, presumibilmente sconosciuta ai suoi detrattori. L’arte in questa recentissima manifestazione tecnolotigica di campionatura visuale stava nello scontornamento, nell’editing delle foto – un intervento di modifica in grado di enfatizzare o addirittura creare un effetto di narrazione implicita, irrisolta e potenzialmente incriminante alla
Blow-Up.
Ma mentre David Hemmings in o Stewart ne La finestra sul cortile erano obbligati, in modi diversi, a restringere l’attenzione a minuscoli frammenti delle rispettive città , Wolf aveva a disposizione un sistema di sorveglianza di dimensioni inusitate che, a sua volta, è solo una fibra della più ampia rete di controllo operata da stati e imprese sulla quotidianità . Non serve dire che la curiosità  di Wolf ben presto ha travalicato gli originari confini locali. Se si annoiava ad andare a caccia per le strade di Parigi, poteva puntare l’obiettivo su qualche altra città  del mondo e vedere cosa succedeva lì.
Seguendo Wolf da spettatore nei suoi vagabondaggi globali chi scrive ha scoperto che esistono altri che fanno più o meno la stessa cosa. Se si cercano su Internet le opere di Wolf, Google (questa volta senza fotocamera, nella funzione di motore di ricerca) indirizza verso Jon Rafman, un artista che lavora partendo dallo stesso materiale. Sul suo sito espone immagini estrapolate da Street View, come Wolf, alcune appartenenti alla stessa scena. Di chi sono allora le foto? È un aspetto implicito nel substrato concettuale di questa attività  condivisa. Secondo la bellissima definizione di Rafman sono «foto che nessuno ha scattato, ricordi che nessuno serba».
Tra Wolf e Rafman esistono tuttavia ampie differenze a livello di approccio. L’opera di Wolf, strutturata in serie, mantiene in una certa misura il carattere sistematico della ricerca dell’autore. Pur condividendo la passione di Wolf per alcuni dettagli – gente che mostra il dito medio, battone, incidenti stradali – il trentenne Rafman mostra più incertezza nello stile. Non solo dà  l’impressione di non essere un fotografo di esperienza come Wolf, si direbbe addirittura che non sia mai uscito di casa e che tragga la conoscenza del mondo solo da come quest’ultimo viene rappresentato. Ma il rischio anche qui è di sottovalutare, perché Rafman, che mi pare viva a Montreal, potrebbe benissimo osservare la vita sulla terra da una remota stazione spaziale – guardandola con nostalgia. Questa raccolta apparentemente casuale di foto di ogni
dove (e nessun luogo in particolare) ha un che di straordinariamente commovente. È come se la tecnologia da cui nasce l’opera desse adito a una nostalgia e a una malinconia così intense da rendere l’originale agognato impossibilmente intimo, incredibilmente remoto e – di conseguenza – incomprensibilmente strano. Come Wolf, Rafman sostiene che «è l’inquadratura che dà  il senso » ma va oltre: «Reintroducendo lo sguardo umano io riaffermo l’importanza e l’unicità  dell’individuo». Da dove è tratto questo concetto di individuo? Dalla fotografia! Colpito dal senso di impellenza delle immagini rubate da Street View, un’urgenza a suo avviso presente nella tradizione delle fotografia di strada, Rafman setaccia Google per rivelare la storia parallela del mezzo, in cui le immagini di Lartigue, Doisneau, Winogrand (che nei suoi ultimi anni ha fotografato dall’automobile le strade di L. A. dando vita a una sorta di Street View) ed altri maestri si mescolano indiscriminatamente ad istantanee dal fascino stravagante – estrapolate dalla loro originale collocazione nel tempo e nello spazio.
Per quanto entusiasmanti fossero non mi è bastato vedere le opere di Rafman e di Wolf solo sullo schermo del computer, quasi fossi attirato contro la mia volontà  in quel vortice virtuale e eternamente mediato. Poi, a San Francisco mi è capitata la mostra di Doug Rickard
A New American Picture alla Galleria Stephen Wirtz. Le foto di Rickard hanno definitivamente dissipato ogni dubbio quanto ai meriti artistici – piuttosto che etici o concettuali – di questo nuovo metodo. Fu William Eggleston a coniare l’espressione “fotografare democraticamente”, Rickard ha usato l’indiscriminata onniscienza di Google per ampliare gli orizzonti della sua impresa sotto il profilo tecnologico, politico ed estetico.
Rickard sceglie i luoghi delle periferie cittadine disastrate economicamente: gli spazi desolati e le strade squallide su cui si frange l’onda della promessa americana disattesa. Sono luoghi popolati da figure randagie, nel senso che hanno vagato nel campo a 360 gradi della fotocamera ma anche deviato dalla via della prosperità  – o meglio, la via della prosperità  è passata loro accanto. Sembra che i disperati che attraversano bolsi la strada non riescano ad arrivare sul marciapiede opposto, quasi fossero alla deriva, perennemente confinati nel limbo del tardo capitalismo.
Le serie contengono ovvi rimandi alle fotografie scattate da Evans negli anni Trenta in cui le insegne svolgevano un’analoga funzione corale. Vi aleggia anche lo spirito inquieto di Robert Frank, come se le auto di Google fossero la moderna incarnazione della macchina su cui egli compì alla metà  degli anni Cinquanta il famoso viaggio per dar vita alla raccolta fotografica The Americans.
Come nel caso dei due illustri predecessori esiste una strana bellezza – triste, lirica, sconsolata – in quest’ultima puntata virtuale dell’odissea del safari fotografico americano. Il risultato non è la nitida precisione di un Evans o lo sguardo frettoloso, obliquo, di un Frank, ma un riflesso sfocato, un’imprecisione sbiadita e caratterizzante. I colori vengono esaltati o prosciugati a seconda dei processi cui Rickard li sottopone. A volte il cielo è slavato, in altri casi mantiene traccia della nostalgia turchese del Super 8 dei tempi andati (il colore dell’ottimismo, della crescita economica per tutti). Il che alimenta la sensazione di avere davanti agli occhi città  fantasma – o strade fantasma – in fieri.
Un’immagine in particolare aveva un che familiare e inquietante, la foto di un tizio in sedia a rotelle con un cappello da cowboy, lo sguardo fisso all’obiettivo. È un po’ fuori fuoco per uno degli scherzi che gioca l’alchimia delle varie tecnologie in campo, e sembra vibrare. C’è voluto un po’ per capire il motivo per cui la foto mi era così familiare – l’avevo forse vista in un qualche concorso? – ma poi, mentre passavo oltre, mi è venuto in mente: ricordava le immagini sfumate della gente assiepata a lato dei binari del treno funebre di Robert Kennedy in viaggio da New York a Washington nel 1968 (l’anno di nascita di Rickard). Invece dell’ala di folla al passaggio del corpo del defunto senatore qui abbiamo individui presi a caso, indifferenti o sorpresi, mentre l’auto di Google con la sua fotocamera periscopio fa il suo lavoro, percorrendo ogni strada del paese, ineluttabile e casuale come la morte stessa: il vuoto risolutivo, per dirla con Larkin, che sottende a tutte le nostre azioni.
(Traduzione di Emilia Benghi) © 2012, © RIPRODUZIONE RISERVATA

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