by Editore | 26 Agosto 2012 15:02
ROMA — Ha poco più di un mese di vita, è entrata in vigore il 18 luglio. Un tempo breve, caduto per di più nel cuore dell’estate, quando tutto rallenta e la gran parte delle decisioni viene rinviata a settembre. Eppure si vedono già i primi effetti della riforma del mercato del lavoro. Sia negativi, come la difficoltà di rinnovare i contratti a termine, sia positivi, come la decisione presa da alcune aziende di stabilizzare i precari. Nei piani del governo quei quattro lunghissimi articoli dovrebbero aiutare i giovani a trovare un’occupazione, impresa non facile visto che sotto i 24 anni è senza lavoro un italiano su tre. E allo stesso tempo costruire un argine contro la cosiddetta «flessibilità cattiva», quella selva di 40 tipi diversi di contratto che in molti casi ha trasformato una sacrosanta esigenza del sistema produttivo nel problema numero uno di una generazione intera. Dalla flessibilità alla flessibilità cattiva, appunto, e quindi alla precarietà .
Per questo la riforma Fornero è stata costruita con l’obiettivo di frenare i contratti a termine, quelli di collaborazione, le partite Iva e tutte quelle forma di precarietà che l’anno scorso hanno coperto quasi 7 assunzioni su dieci. Indicando come principale canale d’ingresso l’apprendistato, un misto fra lavoro e studio che impegna l’azienda a formare un giovane ottenendo in cambio un generoso taglio dei contributi da pagare. Il passaggio non è semplice. Perché è vero che la riforma dovrebbe favorire la crescita, parola magica contenuta anche nel titolo della legge. Ma purtroppo è vero anche il contrario: senza crescita, senza l’economia che gira, è difficile spingere un imprenditore ad assumere. Sia a termine che con un contratto stabile, sia ad agosto che a settembre.
Il primo nodo è venuto al pettine da «mamma Rai». Più di un terzo delle persone che lavorano nei programmi di intrattenimento e approfondimento sono a partita Iva. Più di due mila persone, molte delle quali andrebbero regolarizzate, visto che la riforma fa scattare l’assunzione se l’80% del reddito arriva dalla stessa azienda e sarebbe quindi da considerare un dipendente mascherato. L’azienda studia la possibilità di assumerli sì, ma con contratti a termine. E loro, gli «esterni» Rai, sono pronti a fare causa.
Anche perché i contratti a termine sono un approdo ancora meno sicuro che in passato. Dice la riforma che il primo non può durare più di un anno e non è prorogabile, anche se è stato eliminato l’obbligo di indicarne la motivazione. E poi sono state allungate le pause tra un contratto e l’altro, fino a 90 giorni. Ed è qui il vero problema. Perché, almeno per il momento, a venire galla non è tanto la trasformazione dei vecchi contratti a termine in qualcosa di più stabile. Ma, più semplicemente, la difficoltà a rinnovare quelli esistenti. Un problema che sta emergendo in mondi fra loro anche lontani, dai patronati all’Aspen Institute Italia, dalle compagnie aeree, dove ormai i cassintegrati sono più numerosi dei lavoratori a termine, fino alle case editrici.
In quest’ultimo settore, avverte Massimo Cestaro, segretario della Slc Cgil, il «rischio è che tutti i contratti a termine vengano trasformati in partite Iva. Torneremmo indietro, insomma. E forse sarebbe stato meglio prevedere una maggiore gradualità ». Chi la gradualità se l’è presa da solo è il settore simbolo del precariato, quello dei call center. Qui il problema non riguarda gli operatori che ricevono le chiamate, quasi tutti stabilizzati nel 2007, ma le società che fanno vendita o marketing, quasi 40 mila lavoratori. «Proprio nelle ultime settimane prima dell’approvazione della legge — racconta Michele Azzola, anche lui Cgil — quasi tutte le società hanno prorogato di tre o sei mesi i contatti in essere». È successo a Taranto, a Rende, è successo ovunque. Hanno preso tempo ma il problema è solo rinviato: cosa faranno tra ottobre e dicembre quando anche le proroghe arriveranno a scadenza?
C’è poi il «blocco» dei contratti a progetto denunciato dai consulenti del lavoro con un sondaggio a campione pubblicato nei giorni scorsi da Italia oggi. È vero che la riforma ha cercato di semplificare un sistema «troppo interpretabile», come disse lo stesso Mario Monti, e proprio questo minor margine di manovra può non piacere ad alcuni consulenti. Ma anche il loro allarme è un segnale.
Ci sono anche casi virtuosi, però. Primo fra tutti quello della Golden Lady, l’azienda mantovana che produce calze. Il 18 luglio, appena due giorni dopo l’entrata in vigore della riforma, l’azienda ha firmato un accordo con i sindacati che prevede l’assunzione a tempo indeterminato, entro un anno, di 1.200 persone che oggi lavorano nei negozi come associati in partecipazione. Si tratta di un contratto flessibile che può nascondere un rapporto dipendente e per questo viene cancellato dalla riforma. «L’accordo Golden Lady — dice Giorgio Santini, segretario aggiunto della Cisl — è un modello positivo anche se aspettiamo che dalle parole si passi ai fatti». Comunque il caso ha attirato l’attenzione del ministro Fornero che a settembre incontrerà il management dell’azienda. Un riconoscimento, forse. E anche l’occasione per capire come stimolare l’imitazione.
In realtà qualche altro piccolo segnale positivo c’è, ma siamo nel campo degli effetti collaterali. Ai primi di agosto il Credito valtellinese ha chiuso un accordo di ristrutturazione che prevede sì 150 esuberi ma anche l’assunzione definitiva di un centinaio di precari. Poco prima le Poste hanno firmato un accordo per stabilizzare più di 4 mila precari che avevano già fatto causa all’azienda con buone probabilità di vittoria. Dalla riforma insomma è arrivata la spinta finale, ma sono passi che avrebbero fatto comunque. Per avere un quadro completo bisogna aspettare ancora. E per il momento occorre accontentarsi delle previsioni.
«Alla fine — dice Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil — quello a termine resterà il contratto prevalente. Magari accelerando il turnover dei precari: non rinnovo il contatto a chi è dentro ma prendo un’altra persona e ricomincio da capo». Non è una sorpresa visto le critiche che arrivarono nei giorni dell’approvazione, ma anche in Confindustria si dicono scettici. Specie sul reale decollo dell’apprendistato. Anche se molto conveniente per le agevolazioni sui contributi — sostengono gli industriali — quel tipo di contratto sarà usato poco. E questo perché non in tutte le zone di Italia e non per tutte le figure professionali viene garantita quella formazione in aula a carico del settore pubblico che dovrebbe completare la formazione sul campo. In passato è successo spesso che al termine del contratto l’Inps chiedesse alle aziende i maggiori contributi proprio perché la formazione in aula non era stata fatta. Gli imprenditori dicono che anche dopo la riforma rischiano di pagare per colpe non loro.
Di questi e di tutti i problemi della riforma si occuperà quell’attività di monitoraggio prevista dalla stessa legge e che il governo ha inserito tra le «azioni in programma» nell’agenda per la crescita, discussa due giorni fa. Ci vorranno mesi per misurare il reale impatto delle nuove norme sull’economia italiana, per capire se l’occupazione è cresciuta oppure no, vedere se ci sono dei punti da correggere. E stavolta si seguirà davvero il modello tedesco. A raccogliere i dati, elaborarli e analizzarli non sarà il ministero del Welfare ma una serie di centri studi e di ricerche, organi terzi insomma, proprio come hanno fatto in Germania dopo la loro riforma di dieci anni fa.
Il ministro Fornero ne ha già parlato con la sua collega di Berlino, Ursula von der Leyen, all’inizio di luglio e le procedure saranno definite nelle prossime settimane. Nel frattempo c’è già chi segnala i primi punti da correggere. L’ex ministro Cesare Damiano (Pd) si sofferma sui voucher, il lavoro a chiamata, che possono essere utilizzati anche per chi è in cassa integrazione: «Una buona idea per aiutare chi è in difficoltà ma, come ha denunciato la Coldiretti di Cuneo, non si capisce perché sia applicabile solo dall’anno prossimo».
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