HUGHES, IL CRITICO CHE SFIDà’ IL POLITICAMENTE CORRETTO

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Era il bastian contrario della critica d’arte. Robert Hughes ha sempre combattuto le battaglie culturali con una voce fuori dal coro, instancabile nell’affermare che il re è nudo. L’uomo controcorrente se n’è andato a 74 anni dopo una lunga malattia. Solo la morte poteva chiudere la bocca a quello che il New York Times, ha definito il più grande critico d’arte al mondo. Lui si considerava «uno di quegli scrittori il cui tema è l’arte». Ma non era solo questo. Il suo libro più celebre è La cultura del piagnisteo
(Adelphi) del 1993 che mette in ridicolo la voga del politicamente corretto, l’esaltazione vittimistica delle minoranze, l’appiattimento mediocre che non riconosce l’eccellenza tipico della cultura americana e non solo. Qualche pallottola in questo superlativo pamphlet scritto in una lingua robusta, chiara, incisiva e incalzante, arriva dritta anche al cuore del sistema dell’arte. Tra le altre cose, Hughes ricorda la vicenda dell’Olanda e di molti altri paesi afflitti da un assistenzialismo insensato che, dopo aver istituito fondi per acquistare opere di giovani autori senza alcun di qualità , si erano ritrovati magazzini pieni zeppi di ciarpame. Che nessuno voleva, nemmeno i manicomi. E questo la dice lunga.
Nato in Australia nel 1938, Hughes viveva a New York dal 1970, anno in cui era diventato il critico del Time. Nel 1980 aveva scritto Lo shock del nuovo, un libro celeberrimo che immediatamente aveva dato vita a una serie di programmi televisivi realizzati per la BBC, in cui lui, capelli rossicci e faccia da antipatico per vocazione, raccontava la storia dell’arte dalla nascita della Tour Eiffel, conducendo il visitatore in una Parigi leggendaria, o sulla Costa Azzurra sulle tracce di Matisse o Picasso. Sempre con il suo occhio indagatore libero dai pregiudizi. Perché, tra le altre cose, Hughes era un grande divulgatore. Scriveva e parlava in una lingua tutt’altro che specialistica. E anche questo non era affatto apprezzato da un mondo sempre più autoreferenziale. Ma per lui la chiarezza era l’arma migliore per smascherare quelli che riteneva i bluff dell’arte contemporanea: da Andy Warhol a Jeff Koons fino a Gilbert and George e Damien Hirst. Nel 2004 è tornato a raccontare Lo shock del nuovo per la tv, scagliandosi con intelligenza contro quelle che riteneva fossero le distorsioni di un mondo dell’arte sempre più sottomesso a un’unica musa: il denaro. Di Koons diceva che era «la manifestazione estrema e compiaciuta dell’ipocrisia attaccata a un sacco di soldi. Il risultato è che non puoi immaginare cultura depravata americana senza di lui». Gli altri li definiva «spazzini riciclatori che infestano i boschi miseramente alla moda di un postmoderno già  decaduto». E quando l’America impazziva per Alex Katz eccolo, ineffabile, sostenere: «Un gusto per il lavoro di Katz è facile da acquisire. Ma è obbligatorio?». Il fatto che fossero corteggiati dal mercato non faceva che aumentare il suo disinteresse verso di loro, visto che definiva i collezionisti “sardine in branco” capaci solo di comprare le stesse cose. Amava invece Lucian Freud del quale considerava importante ogni centimetro di pittura. Ma anche Franz Auerback, su cui aveva scritto un libro nel 1990.
Nel 2003 su indicazione di Vittorio Sgarbi stava per diventare curatore della Biennale di Venezia. Rifiutò perché sfinito dalle indecisioni del governo italiano, che alla fine, per dimostrare di essere davvero confuso, ripiegò sul ben più rassicurante Francesco Bonami. Quando la televisione gli commissionò una serie di puntate sulla storia dell’Australia, Hughes si accorse che non esistevano libri che raccontassero l’insediamento dei coloni inglesi nel suo paese. «Il nostro passato è stato negato e romanzato », dichiarò. E, nel 1987, scrisse La riva fatale, con i galeotti mandati nelle colonie nei panni di inconsueti eroi.
La sua esistenza è stata anche dolorosa: nel 1999 ha subito un incidente d’auto con strascichi pesanti, nel 2002 suo figlio si è ucciso. Tra gli ultimi grandi amori di Hughes c’è stato Goya, il visionario, l’artista che combatteva contro le superstizioni e le arretratezze del suo paese. A lui ha dedicato un libro che è una lezione di storia dell’arte (Mondadori). «Avevo sperato di “catturare” Goya scrivendo e invece è lui che ha incatenato me», ha dichiarato. Così il pittore spagnolo era diventato una specie di
alter ego, uno specchio in cui riflettersi. In nome della pittura, della libertà  e dell’irriverenza verso i poteri forti.


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