Hanif Kureishi Quando una corsa solitaria ci porta in un’altra vita

by Editore | 26 Agosto 2012 12:02

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Lui e sua moglie avevano scherzato per parecchi anni sul fatto di fare una gara nelle strade dove vivevano. Adesso, nella settimana del loro divorzio, prima di abbandonare la casa che avevano condiviso per dodici anni con i figli e i figliastri, l’avrebbero fatta, dato che nessuno di loro era riuscito a trovare una giustificazione valida per tirarsi indietro. Lui immaginò che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbero fatto insieme. 
Aveva praticato jogging un paio di volte a settimana per cinque anni, ma di rado era riuscito a correre per più di venti minuti consecutivi. Lei invece non faceva esercizio fisico, fuorché un po’ di yoga e ballare la bossanova che amava. Tuttavia, era sicuramente in vantaggio lei per la corsa, dato che aveva quarantacinque anni mentre lui aveva superato la sessantina da un po’, scoprendo, per altro, che si trattava di un’età  sgradevole, di onesta e critica autoriflessione. 
Rispetto a lui, la sua avversaria non era in cattiva forma, benché non si potesse affermare che fosse in buona forma. Da adolescente era stata una podista di corse campestri. Ne aveva il fisico: era alta ma rotondetta, e aveva gambe forti e grosse. Sarebbe stata molto determinata nella gara, questo lo sapeva. Nondimeno, non credeva che avesse abbastanza resistenza. È impossibile correre per oltre un’ora di buona lena se non lo si fa da venticinque anni. Oppure sì, se a incalzarti è l’amarezza? Quando ne avevano parlato, lei aveva detto che “mai e poi mai” avrebbe potuto lasciarlo vincere. Si sarebbe uccisa, piuttosto. Bene, che muoia, pensò lui. Sarebbe stato felice di seppellirla. 
Uscirono entrambi di casa a grandi passi, sul marciapiede. I bambini e i loro amici, elettrizzati e sconcertati dall’eccentrico comportamento degli adulti, battevano violentemente alle finestre e salutavano, prima di ritornare a giocare a calcio nelle stanze che riecheggiavano, ormai pressoché vuote a eccezione degli scatoloni ammonticchiati e contrassegnati da etichette diverse per lui e per lei. 
Lui era sicuro che nessuno di loro due avrebbe dimenticato quella giornata, e non la prendeva alla leggera. Tanto per cominciare, si rendeva conto che avevano seriamente sottovalutato le distanze. Sulla base dell’itinerario che avevano stabilito, l’intera corsa probabilmente sarebbe durata un’ora e mezza. Per entrambi si sarebbe trattato di ben più che un semplice sforzo. Sin da quando avevano finalmente concordato quella “sfida mortale”, lui aveva iniziato ad allenarsi, correndo una trentina di minuti quasi tutti i giorni, al termine dei quali era esausto. 
La sera prima si era cimentato in dieci flessioni sulle braccia, aveva bevuto poco, si era allenato, e si era ritirato in camera sua alle ventuno e trenta, dove aveva immaginato di arrivare a casa di corsa prima di lei, con le braccia alzate in aria come Jesse Owens a Berlino, ma con una rosa tra i denti. 
La sua ardente speranza era che la rabbia lo spronasse e lo incalzasse per tutta la corsa, soprattutto dopo che lei aveva detto: «Spero sul serio di arrivare a casa per prima. Poi chiamerò un’ambulanza e ti saluterò dal marciapiede mentre te ne starai disteso a terra sulla tua fottuta schiena, perdente sbudellato che non sei altro!». 
I bambini, aveva notato, erano elettrizzati all’idea di sapere che cosa avrebbe lasciato nel testamento. 
Fuori, in strada, si piegò avanti e indietro, mosse qualche passo sulla punta dei piedi ruotando le braccia. Lei gli stava accanto, impaziente. Lui non sopportava neppure di guardarla. Aveva detto di volersi rifare una vita, e che non ne vedeva l’ora. Di questo egli ne era felice. Avrebbe potuto non prendere seriamente quella ridicola prova? Dovevano sembrare due veri idioti, fermi lì, con lo sguardo truce, arrabbiati, scalpitanti. Dove erano finite la sua saggezza e la sua maturità ? Eppure, per certi aspetti, niente in precedenza aveva contato più di quella corsa. 
Si concentrò sulla respirazione e iniziò a muovere passi di corsa da fermo, sul posto. Avrebbe corso al massimo delle sue possibilità . Avrebbe corso perché aveva commesso un altro errore. Avrebbe corso perché loro due non potevano più stare in una stessa stanza, e perché in lui era ormai entrato il lato peggiore di lei. 
Quando pensò che fosse pronta, le chiese: «Tutto a posto?». 
«Sì». 
«Forza, iniziamo allora. Sei proprio sicura?» chiese ancora. 
«Sì, sono sicura». 
«Pronti?».
Lei disse: «Devi dire “Via!”, non “Pronti?”». 
«È quel che farò, non appena mi dirai che è il momento di dirlo». 
«Dillo adesso, per favore!» rispose. «Santo iddio!». 
«Okay, okay». 
«Okay?». 
«Via!» fece lui. 
«Ecco, grazie!» disse lei. «Era ora!». 
«Via, via!» ripeté lui. 
«Ottimo» ribatté lei. «Via!». 
E partirono. 
Scattò in avanti per primo, muovendo attentamente i primi passi per mettere alla prova le ginocchia. Poi però si accorse che lei era partita di slancio, lo superava, svoltava dietro l’angolo a pochi metri di distanza. E presto la perse di vista. 
Lui si attenne al suo piano: sarebbe andato piano, come aveva deciso, per conservare tutte le energie per lo scatto finale degli ultimi quindici minuti. Dopo aver svoltato il primo angolo anche lui, rallentò ancora di più. Sentì contrarsi la coscia sinistra. Forse si era stirato qualcosa. Che fosse sclerosi multipla? O forse crampi? Di quei tempi gli venivano i crampi spesso, anche quando si tendeva per tagliarsi le unghie dei piedi. Non che qualcuno ne fosse esente. Li si vedeva prima dei tempi supplementari dei tornei di calcio: prendevano duecentomila a settimana, ma anche i più grandi calciatori al mondo si ritrovavano stesi sul prato come se qualcuno avesse loro sparato un colpo. Conosceva bene quel dolore. Lo condivideva, saltellante sciocco svigorito che non era altro, con le scarpe da corsa sgargianti e i pantaloncini di tela sulle gambe ossute. 
Proseguì verso il Green, convinto che avrebbe corso fino a far diminuire la contrazione dolorosa. Oppure si sarebbe abituato al dolore. Ma si accorse ben presto che peggio del dolore era l’esposizione pubblica, quel suo sforzarsi ansimante e vergognoso. Molti pedoni parevano camminare più veloci di lui che correva, ma riuscì a superare la bambinaia di un banchiere che spingeva un bimbo in carrozzina. Un operaio polacco di sua conoscenza stava scaricando il suo furgoncino, e i camerieri ungheresi del bar di quartiere che frequentava di solito gli sorrisero, lo salutarono e gli avrebbero anche offerto una sigaretta mentre si recavano al lavoro. Fu facile sorpassare un avvocato, un pazzo e un giornalista. L’uomo della lavanderia, che fuori dal suo negozio sembrava fissare l’eternità , non lo notò. 
Vide coppie che riuscivano a sopportarsi a vicenda tutto il giorno, che avrebbero consumato la colazione e passeggiato insieme negli alberghi per le vacanze, e si sentì come chi abbia aperto un sito web pornografico soltanto per assistere a tremende immagini di idillica felicità  e ad amplessi amorosi e gioiosi tra coppie sposate, più oscene di qualsiasi oscenità . 
Oltrepassò correndo la scuola privata, la scuola pubblica, la scuola francese, e poi la chiesa cinese, la chiesa cattolica e la moschea che occupava il piano terra di un edificio. Superò correndo Tesco’s e vari negozietti, come pure un ristorante indiano, una caffetteria marocchina, e vari locali di vendite per beneficienza. Nella vetrina di uno di questi vide in mostra i libri per i quali non aveva spazio nel suo nuovo appartamentino dove – pensava – tutte le sue notti sarebbero state lunghe un centinaio di anni. Lì si sarebbe svegliato tra suoni del tutto estranei. Doveva reimparare a vivere. Perché mai qualcuno avrebbe voluto fare una cosa del genere? 
Fu con un certo sollievo che arrivò al parco, e vide altri auto-flagellatori fare smorfie, molti dei quali più anziani di lui. Fu lì che localizzò la sua avversaria, la moglie che non riusciva ad amare o a uccidere. Era lì, un’esile sagoma che correva con tutte le sue forze nel vento, lungo il margine lontano del prato. Scomparve tra gli alberi, senza sembrare affaticata. 
Dopo un assorto giro del parco, egli passò per un tratto sul marciapiede. Dopo aver schivato i pendolari si diresse verso un maleodorante sottopassaggio, dove i rumori dei suoi passi risuonarono forte, risalì e uscì sull’alzaia accanto al fiume sorprendentemente ampio. Alcuni alunni e alunne delle scuole private, con gli stivali Wellington ai piedi e tutta la vita davanti, stavano trascinando in acqua lunghe imbarcazioni. 
Li aggirò e dopo una quindicina di minuti arrivò al ponte. Guardò in alto e salì di corsa metà  scalinata. Pensò che sarebbe stato saggio salire lentamente il resto degli scalini. Respirava a fatica e tossiva, non essendo un vascello cartesiano di consapevolezza e razionalità , quanto un’informe ammasso di tendini che scoppiavano, di vene sempre più sporgenti, di polmoni ansimanti.
Tuttavia, qualche barlume di pensiero agente gli restava e sul ponte ritornò a correre, guardando di sfuggita l’ampio panorama e gli occhi delle deliziose case che vi si affacciavano, tutti posti che non avrebbe più potuto permettersi. La casa è per i figli, pensò, lanciando la fede nuziale oltre il parapetto. Forse, lì sotto, proprio sotto la superficie dell’acqua, doveva esserci un bel mucchio di fedi d’oro, amari residui d’amore, un tributo alla liberazione. 
Reggendosi forte al corrimano per il timore di cadere giù di testa, raggiunse la base dei gradini dall’altra parte, e svoltò, con uno scatto follemente fiducioso, in strada. Dopo qualche altro centinaio di metri dovette fare una pausa per riprendere fiato. Ne aveva proprio bisogno. 
A quel punto lo aspettava l’ultimo lungo tratto, che seguiva il viale della rovina, con il fiume fiancheggiato da alberi da un lato e il bacino idrico dall’altro. Più avanti lungo il percorso, se non gli fosse venuto un infarto, avrebbe trovato sua moglie a terra, distesa, piagnucolante, o forse addirittura che vomitava, con le forze appena sufficienti ad aggrapparsi supplicante alle sue caviglie. Non si sarebbe di certo fermato. Anzi, l’avrebbe superata con un balzo, magari assestandole del tutto per caso un calcio in testa, prima di fare uno sprint finale verso la vittoria. 
Dopo aver salito e sceso a fatica tutti quei gradini, si rese conto di essere stanco. O forse stava per morire. Ne aveva abbastanza di quella corsa e aveva bisogno di tutte le sue energie di riserva. Ma dove trovarle? Si allaccio e si riallacciò le scarpe, sempre correndo sul posto, timoroso di fermarsi del tutto, contemplando quell’umido panorama di fango, alberi e nuvole che lo aspettava. E nel frattempo la sua mente turbinava e girava, facendo il conto delle sue perdite, finché la sua ricerca nella sofferenza ebbe fine. Gli era venuta un’idea migliore. Fece un passo.
Invece di seguirla, invece di raggiungerla – forse, prima o poi –, si girò e guardò nella direzione opposta. Fece un altro passo in avanti. Ne fece qualcun altro, quasi vacillando, come se prima di quell’istante non avesse mai camminato. Si allontanò nella direzione opposta. 
Come la freccia di Zenone, fatta librare nell’aria in eterno, non sarebbe mai tornato. Sarebbe arrivato da qualche altra parte. O non esistevano altri posti al di fuori di quello? Sarebbe diventato una persona smarrita. Talvolta è indispensabile avere il coraggio del proprio disinganno. Non più appassionati abbracci sadomaso, valzer di morte. La crudeltà  era un’arte. Rimpiangeva ogni cosa, ma non questa. 
Il cielo si andava oscurando, e nondimeno avvertiva una nuova energia propulsiva, amorfa e non competitiva. Corri, corri, corri dicevano tutte le canzoni pop ascoltando le quali era cresciuto. Avrebbe seguito quel consiglio, pur non dimenticando mai che chi corre lontano da qualcosa corre in direzione di qualche altra cosa. 
(Traduzione di Anna Bissanti)

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