FURBI

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Ci sono molte furbizie. C’è quella degli dei – fra gli infiniti stratagemmi a loro attribuiti si ricorda Hermes, dio dei ladri, del commercio, della navigazione, dei viaggi, che ancora fanciullo rubò una mandria di buoi custodita da Apollo, tirandoli per la coda e facendoli così camminare all’indietro, per confondere le tracce – , e quella degli eroi (Odisseo, paziente sì ma anche polytropos, multiforme, che col suo “senno astuto” fece vincere la guerra di Troia agli Achei – il cavallo di legno è stata la più grande furbizia dell’antichità  – ). C’è la furbizia dei santi – Gesù in passo del Vangelo di Matteo manda i suoi seguaci nel mondo «come pecore in mezzo ai lupi», raccomandando loro di essere «astuti come i serpenti e candidi come le colombe», cioè prudenti nel guardarsi dai pericoli, ma privi di malizia (non come il serpente ingannatore del paradiso terrestre, che ci indusse a peccare e fu quindi la fonte di tutti i guai dell’umanità ) – , e c’è la furbizia dei grandi politici, raccomandata da Machiavelli. Secondo un passaggio del capitolo XVIII del Principe, questi deve infatti possedere virtù umane e animali. E fra gli animali deve assomigliare al leone, per mettere in fuga i lupi con la sua forza terribile, ma anche alla volpe, la bestia astuta per eccellenza, perché come quella il principe deve “conoscere i lacci”.
Machiavelli sa bene che «gli Stati non si governano con i paternostri », e che l’elemento dell’utilità  e del vantaggio è parte fondamentale della politica, e deve essere perseguito – pena l’insuccesso e la sconfitta – con sagacia, scaltrezza, astuzia; cioè con una ragione concretamente centrata su di un soggetto privilegiato, il cui tornaconto, comunque perseguito, è legge. Certo, questo soggetto al quale molto è lecito, purché gli riesca bene, è uno Stato, o un eroe, che ha fini universali o in ogni caso “superiori”, che si muove da protagonista sul palcoscenico della storia: non è un privato che agisce per squallidi motivi personali. Cavour che spedisce a Parigi la bellissima contessa di Castiglione (sua cugina) perché seduca Napoleone III e lo induca a una politica filo-piemontese (il che appunto avvenne con grande successo), è indubbiamente astuto. Ma si tratta di un brano di alta politica, di un disegno che è intessuto sì d’astuzie e di accortezze, di sottigliezze e di sotterfugi, di doppiezze e di manipolazioni, ma che ha anche mutato la storia di un popolo e di tutta Europa.
C’è poi la furbizia degli umili – la furbizia contadina di Bertoldo, il cui buon senso e la cui sagacia sono un mezzo per sopravvivere in un mondo ostile, perché tutto in mano ai grandi e ai ricchi – ; e infine la furbizia peggiore: quella dell’uomo medio, del cittadino dello Stato di diritto. Che non ha grandezza storica, e che non è neppure
(quasi mai) autodifesa da un mondo ingiusto. È, semmai, la furbizia dei furbetti del quartierino, cioè delle bande di spavaldi e sprovveduti che si pongono obiettivi solo individuali, di lucro personale, e li perseguono forzando le leggi. È l’Italia delle migliaia di cordate fra “amici”, l’Italia degli infiniti sotterfugi – un’Italia dai mille volti, che vanno dal familismo amorale (la famiglia, male interpretata, è la prima delle “bande”) alla copiatura dei compiti alla maturità  o delle tesi di laurea, dall’evasione fiscale sistematica alla corruzione endemica – ; è l’Italia della commedia all’italiana, che va giudicata con altri parametri: non con quelli grandiosi di Machiavelli ma con quelli del padre dello Stato moderno, dell’inventore della politica individualistica e utilitaristica, cioè Thomas Hobbes.
Il quale nel XV capitolo del Leviatano definisce “stolto” colui che oggi definiamo
free rider,
il libero battitore. Ovvero colui che pur vivendo in una società  fondata sul patto di tutti con tutti – le leggi, all’interno delle quali tutti possono perseguire il proprio utile – non mantiene i patti, per il suo vantaggio individuale. La furbizia, in questo contesto che è anche il nostro, è una ragione a breve raggio, che cerca il beneficio immediato di uno solo, contraddicendo la legge, che è invece la ragione a più largo raggio, istituita da tutti per il beneficio di ciascuno. Furbizia è ingiustizia, insomma; il furbo non vuole pagare per i benefici che riceve, e quindi è un ladro (come dice l’etimo della parola, che deriva da “forbire”, ripulire le tasche altrui; e infatti il gergo “furbesco” è quello della malavita).
Per Hobbes il furbo oltre che ingiusto è poi anche stolto perché rinuncia ai benefici della società  per ritornare in una sorta di stato di natura in cui è sì libero di fare quello che vuole, ma è anche esposto alle rappresaglie della società  intera, che vede in lui una persona inaffidabile e perciò non degna del consesso civile. L’Italia dei furbi è, quindi, un’Italia asociale e autolesionista; l’Italia di quanti trasformano la città  dell’uomo e delle leggi in una giungla in cui abitano – più o meno entusiasti, più o meno applauditi – come “animali”, per finire poi, quasi sempre, quasi tutti, come volpi spelacchiate, preda dei lupi (che, dove manca la legge, non mancano mai).
Ovvero, è un’Italia a misura di Tognazzi che (nel film
I mostri)
insegna al figliolo ogni tipo di furbizia e di ingiustizia (perché «il mondo è tondo e chi non sa stare a galla va a fondo»), per finire poi ucciso, per soldi, dal rampollo una volta cresciuto. Una storia che riguarda da vicino l’Italia di oggi, che sta pagando a caro prezzo la furbizia e l’ingiustizia nella quale ha vissuto, più o meno soddisfatta, per tanti anni. Un’Italia tanto furba, abile e vincente da essere
stupida.


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