FABIO MAURI Quando l’arte mette in scena tutto l’orrore del Novecento

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Provate a immaginare se la Seconda guerra mondiale l’avessero vinta gli altri, se a spuntarla fosse stato l’atroce programma del Terzo Reich. Uno scenario agghiacciante a cui ha pensato Fabio Mauri nel 1971, realizzando un’opera fondamentale per il suo itinerario e per la storia dell’arte: Ebrea.
Oggi Ebrea è al centro della intensa retrospettiva aperta a Palazzo Reale fino al 23 settembre, curata da Francesca Alfano Miglietti, a tre anni dalla scomparsa del grande artista romano.
Una mostra ad alta tensione emotiva, un viaggio nel dolore, in un mondo che appare in tutta la sua brutalità  e la sua ingiustizia. «Se non esistesse il dolore – ha affermato Mauri –, da tempo il linguaggio avrebbe cessato di esistere». E lui lo rende percepibile con freddezza, rigore, in un modo scabro ed essenziale che per questo è ancora più potente. Non esagera mai: parla di morte senza farla vedere, di guerra o di contrasti sociali senza mostrarne le fasi cruciali. Rivela il lato sottile, nascosto, rimosso, di tutte queste cose, ti conduce di fronte all’abisso senza che tu te ne accorga. E quando sei lì non puoi far altro che provare empaticamente le sue stesse sensazioni. Visitando la mostra te lo senti a fianco.
In questo senso Ebrea è un lavoro emblematico. Si tratta di un’installazione allestita in una grande sala dove, immediatamente, si respira il senso della tragedia. Al centro c’è una sorta di monumento equestre, poi una poltrona, degli sci, attrezzi vari. Sei in allarme ancor prima di leggere le didascalie che recitano come i finimenti del cavallo e la poltrona in pelle o gli sci siano stati «eseguiti con Oswald e Mirta Rohn catturati a Davos» . E anche i saponi e i gioielli realizzati con i denti parlano di vite interrotte dal genocidio. Lo choc è talmente forte che per un momento ci si chiede se non sia davvero così, si mette quasi in dubbio la simulazione. D’altra parte è storia: quello che abbiamo visto e sappiamo dei campi di sterminio lo testimonia. Ma Mauri lo vuole rendere presente creando un cortocircuito tra verità  e finzione che è come un pugno nello stomaco. Nei rassicuranti spazi dell’arte, l’orrore del Novecento si manifesta così in tutta la sua nera essenza. La frase che si sente di più tra i visitatori della mostra è: ho i brividi. Mauri è sempre stato un artista scomodo e inclassificabile: era nato a Roma nel 1926 e pur muovendosi nei meandri della
cosiddetta avanguardia, è stato impossibile inserire il suo lavoro in un gruppo e in un movimento. Aveva uno sguardo visionario, più che un precursore era un veggente, uno che leggeva il futuro tra le pieghe dell’arte. Come quando, nel 1957, comincia a realizzare i suoi schermi. Quadri monocromi, a volte aggettanti come i vecchi televisori, su cui a un certo punto compare anche la parola The end che dà  il titolo alla mostra. Quegli schermi bianchi potevano contenere qualsiasi cosa, anche la fine non era concepita come ineluttabile ma come la possibilità  di un altro inizio. Ma un artista attento come lui alla manipolazione delle idee, aveva capito benissimo quale potenziale spaventoso si celasse là  dentro. Per questo chiedeva di stare all’erta, di tenere sempre accese le antenne della compianta scienza. Perché lo schermo fa vedere solo una parte di mondo, e questo è già  un pericolo. Se poi da lì passa un’ideologia (come succede nella performance Che cos’è il fascismo)
la storia, che per lui non è diversa dalla cronaca, può trasformarsi in dramma. «Ho visto il terrore dell’ideologia, come l’ideologia possa dare un’idea del mondo interamente falsa e mascherare le potenzialità  distruttive, perché l’ideologia, ahimè, è un modo in cui l’uomo pone intorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo. L’ideologia totalitaria pensa il mondo per te, obbligatoriamente », ha scritto l’artista. E questo può avvenire anche da uno schermo televisivo. Ne sappiamo qualcosa. Tra le opere più straordinarie e innovative di Mauri ci sono le proiezioni in cui «il raggio è il verosimile modello di rapporto tra mente e mondo». Nel 1975 proietta Il Vangelo secondo Matteo sul corpo del suo autore, Pier Paolo Pasolini, suo grande amico. E poi tanti altri film prenderanno vita sul latte, su strutture inventate, in un Piccolo cinema. I disegni sono la parte meno nota di questa rassegna. Realizzati con gesto libero e carico di espressività  sia quelli di carattere religioso che i nudi, quasi mai armonici: si tratta di un universo di contrasti, mai di incontri. Ma c’è anche un d’après Piero della Francesca. Mauri, che non era ebreo, dopo aver scoperto l’orrore dell’Olocausto fugge dalla vita e viene ricoverato in quella che chiama “la casa dei matti”. Ed è lì, in manicomio, che realizza alcune di queste carte senza centro. Il muro occidentale o del realizzato alla Biennale di Venezia del 1993 è un altro capolavoro che, partendo dal dramma del popolo ebraico, è capace di contenere, in quelle valigie ammassate, tutti gli esodi della storia. Lo zerbino intitolato L’ospite armeno ci trascina, sempre con poco, in un altro pezzo nero della storia del mondo. Così come Cina Asia nuova del 1996, un altro muro di valigie, questa volta cinesi, su cui si possono vedere i volti dei ragazzi di Piazza Tienanmen insieme a quelli dei poliziotti che li hanno massacrati. E sembrano uguali. Mauri ci mette così di fronte alla «capacità  di errore dell’uomo, un guasto biologico esteso». In un’opera che, come al solito, riesce a mettere insieme la storia e le vicende individuali. Che per Mauri era la vera essenza dell’opera d’arte.


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