by Editore | 23 Agosto 2012 8:45
Io sono d’accordo soltanto con chi vuole un’Unione Europea che sia anche un’unione monetaria. L’euro esiste. Che oggi un Paese europeo debba separarsi dall’euro, che debba ricadere indietro all’epoca delle diverse valute, come una palla nel gioco della speculazione, è uno scenario orribile. Non è necessario pensarlo. Anni fa il politico conservatore svizzero Christoph Blocher affermò riguardo alla Svizzera che un’unione monetaria senza un’unione fiscale non poteva funzionare. Nel frattempo lo abbiamo imparato sulla pelle delle nostre finanze. Per fortuna si è osato fare l’unione monetaria, anche senza quella fiscale. E oggi, seppure in seconda battuta, si deve creare anche quest’ultima. Si tratta di un compito pratico possibile da realizzare, che non si risolve con una visione, bensì attraverso un’opera di legislazione da attuare passo dopo passo. E poi arriva l’esperto di turno e domanda se gli europei debbano davvero «livellare le loro differenze culturali» a causa di una valuta comune!
Un valuta comune, e poi anche libri contabili armonizzati, non livelleranno le differenze culturali e mentali, così come non è avvenuto rispetto alle diverse lingue più o meno forti dei singoli Paesi. L’Europa possiede, come nessun’altra parte della terra, un’elevata tradizione nell’imparare e nel comprendere superando i confini. Se c’è una cosa di cui non devono preoccuparsi gli economisti, sono le differenze culturali.
Abbiamo alle nostre spalle secoli, durante i quali si sono sviluppate delle idee e dei valori comuni. In un certo senso il momento dell’euro era arrivato. Non è calato dall’alto. Non mi fanno alcun effetto coloro che ci presentano il conto secondo cui non potevamo permetterci l’unione, perché … E poi segue un ragionamento puramente economicista. Se si critica di continuo perfino il trasferimento di risorse all’interno della Germania, è evidente che la solidarietà è un termine sconosciuto agli economisti.
A noi spettatori non rimane altro che concordare con la parata degli esperti oppure rifiutare quel che propongono. Ammetto che il garante della mia fiducia — abbastanza poco spettacolare — si chiama Schà¤uble.
Ma poiché si tratta niente di meno che dell’Europa, mi sia permesso di pensare quanto lontano noi addetti dei lavori della letteratura siamo arrivati da tempo. Che cosa è invece l’Europa per questi politici e questi esperti? Penso naturalmente a Shakespeare, all’Amleto e ad Ecuba. Questa è l’Europa!
Un esempio del 1799. Friedrich Hà¶lderlin in una lettera al suo amico Neuffer progetta il piano di un «mensile poetico». I saggi in questa rivista devono contenere dei «tratti caratteristici dalla vita di poeti antichi e nuovi… Omero, Saffo, Eschilo, Sofocle, Orazio, Rousseau (come autore dell’Eloisa), Shakespeare …». Deve essere rappresentato ciò che «nelle loro opere vi è di peculiarmente bello»: «l’Iliade, in particolar modo il carattere di Achille, il Prometeo di Eschilo, l’Antigone, l’Edipo di Sofocle, le singole odi di Orazio …, Antonio e Cleopatra di Shakespeare (…)». Non faccio questa citazione perché ora la Grecia costituisce un problema dell’euro, ma perché dimostra quanto allora un poeta 24enne originario di un Paese chiamato Nà¼rtingen vivesse insieme ad altri Paesi europei, quanto questo paese straniero fosse il suo paesaggio interiore, quanto appartenesse alla sua coscienza, alla sua identità . Ciò significa però anche che la letteratura è sempre stata europea. L’Europa è la nostra patria letteraria.
La lingua tedesca non ha mai più raggiunto una tale perfezione artistica come nelle odi di Hà¶lderlin. E si trattava di una metrica che aveva imparato da Alceo e da Asclepiade. Con quanta naturalezza una poesia tedesca risuona in una metrica puramente greca:
Non è sacro il mio cuore, colmo della vita più bella,
da che io amo? Perché mi onoravate
più allora, quando ero più superbo
e selvaggio, ricco di parole e vuoto?
E nei suoi «Inni patriottici» celebra la sua grecità :
Cos’è che
alle antiche beate coste
m’incatena, ché le amo
ancor più della mia patria?
…
mi trovo là , dove, come le pietre narrano, Apollo andava
in figura di re.
E nella poesia «La festa di pace», che è diventata per me la più imponente di tutte le poesie, risuona il verso «da quando siamo un dialogo e udiamo l’uno dell’altro».
Naturalmente queste stesse cose si leggono con attenzione innumerevoli volte. In questo modo si viene rapiti. Si è dunque preparati al Nietzsche più tardo, che alla fine si fa chiamare un «seguace del filosofo Dioniso».
Nietzsche ha concluso il suo libro giovanile e selvaggio sulla «Nascita della tragedia dallo spirito della musica», in cui racconta la nostra vita interiore come una lotta interminabile tra l’apollineo e il dionisiaco, in assoluto il libro sulla Grecia, con queste parole: «Quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello».
E Nietzsche, di tutti quelli che si sono espressi in lingua tedesca, è quello più europeo. Proprio nei «Ditirambi di Dioniso». Qui si eleva:
Urlare ancora una volta,
Urlare moralmente!
…
L’ardore dell’europeo, fame vorace dell’europeo!
Ed ecco io sono già
Quale europeo,
Non posso far altrimenti, mi salvi Iddio!
Amen!
Già in «Umano, troppo umano» mette a punto il «concetto culturale di “Europa”», in cui include «solo quei popoli e parti di popoli che hanno il loro passato comune nella grecità , nella romanità , nell’ebraismo e nel cristianesimo». Che si tratti di morale, moda, filosofia, politica, religione o arte, qualsiasi cosa gli interessi, la coniuga sempre anche come un europeo. E allora arriva il male, ma anche ciò che illumina. (…)
Ovunque si guardi, la letteratura tedesca è più viva laddove è europea. Essa è tedesca sempre soltanto in un secondo momento, dopo aver fatto una scappatella. Chi di noi, grazie a Madame Bovary, non avrebbe vissuto ciò come un incoraggiamento a correre il rischio di sentire ciò che può essere sentito! Quanto fortemente si possa soffrire, ce l’ha mostrato Strindberg. Dell’incanto di un’infanzia evocata facciamo esperienza in Proust. E così via.
In questa disputa intorno alla giusta Europa che ci coinvolge tutti, mi fa buona impressione solo l’esperto che reagisce di volta in volta, ma sempre in direzione dell’Europa, e mai in senso opposto. Mi colpisce chi è prudente, ma saldo.
Perché i popoli ora in bilico non dovrebbero riuscire con il nostro aiuto in una propria evoluzione che ci conduca fuori dalla crisi? Quella crisi, arrivata da noi nel 2008 dall’America, non fu esemplarmente superata con la saggezza di tutti?
Non dobbiamo lasciare il comando alla pusillanimità travestita da competenza. Un passo indietro ora getterebbe per un numero inimmaginabile di anni la giusta Europa nella discarica della Storia. E poi per molto tempo l’Europa non sarebbe più pensabile. Ma è proprio quello che deve rimanere: pensabile! L’Europa val bene una messa. Abbiamo imparato anche questo. In Francia. Quello che siamo, lo abbiamo appreso. L’Europa è anche una comunità di apprendimento.
Hà¶lderlin afferma infatti: «… e i peccati del mondo, l’incomprensibilità / delle conoscenze, quando ciò che permane sopravanza l’affannarsi…» Ma afferma anche: «Laddove è il pericolo, cresce / anche ciò che salva».
Almeno questo deve esser detto. Perché la giusta Europa non è un club d’élite né una confederazione di Stati governata da una super autorità . L’Europa giusta è una comunità di apprendimento, fondata sulla libera adesione e sull’autodeterminazione.
Ciò è quanto l’Europa ha da offrire al mondo.
* Giornalista Frankfurter Allgemeine Zeitung (traduzione di Steffen Wagner)
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