Ecologia e provocazioni I due volti della Biennale
VENEZIA — Da una parte, un bosco di cinquemila felci. Dall’altra, il Belpaese riciclato da Michelangelo Pistoletto. Il Padiglione Italia della XIII Biennale d’Architettura di Venezia, curato da Luca Zevi, si gioca tutto tra questi due estremi che anche fisicamente lo aprono e lo chiudono. E nell’idea di un terreno comune, quel «Common Ground» che dà il titolo alla mostra diretta da David Chipperfield, che può essere, proprio come le cinquemila felci della prima sala e gli avanzi dell’allestimento riuniti da Pistoletto per la sua installazione temporanea al Giardino delle Vergini, frammento di passato degrado o tassello di futura crescita.
Quello di Zevi è il racconto delle «Quattro stagioni del Made in Italy», un racconto che prende le mosse da Adriano Olivetti e dalla sua idea «che il fare impresa non possa prescindere da un atteggiamento etico e responsabile nei confronti dei lavoratori del territorio che accoglie le fabbriche», un racconto in grado di coinvolgere i migliori designer e architetti del suo tempo. Ed è un esperimento riuscito se si pensa alle case per impiegati di Figini e Pollini a Ivrea (1940-’42) o allo stabilimento di Pozzuoli firmato da Luigi Cosenza (1951-’55).
Di questo si trovano testimonianze concrete (disegni, materiali sonori, filmati d’epoca) in questo allestimento (lineare e non invasivo, giocato sui toni del grigio e del nero, ravvivato da immagini realizzate con le stesse tecniche di Quentin Tarantino) tirato su in pochi mesi («mille metri in tredici giorni») con una precisione «quasi svizzera» come spiega lo stesso Zevi, in modo tanto efficiente da aver ad un certo punto «lasciato persino Pistoletto senza scarti da riciclare». E dove fa impressione scoprire da una tabella che, tra gli oltre trecento nomi che hanno lavorato a vario titolo per Olivetti (nelle architetture come nelle riviste), alla lettera M si possono trovare in sequenza Momigliano, Montale, Morandi, Morante e Moravia. Mentre tra i progettisti si può tranquillamente andare da Albini a Le Corbusier, da Quaroni a Zanuso.
Ma a fianco degli antichi maestri il Padiglione racconta anche di un’architettura italiana fatta oggi di professionisti eccellenti, senza tanti grattacieli né «edifici-monstre». Che ha prodotto soprattutto cantine, fabbriche, centri studi. E che in fondo altro non sono che la testimonianza diretta di quel «buon gusto quotidiano» che, come ha spiegato Chipperfield nell’intervista pubblicata ieri su «la Lettura», rende ancora unica l’esperienza del design e dell’architettura made In Italy. Novantanove le imprese presenti (ieri sera raccolte dal presidente della Biennale Paolo Baratta per una cena di gala a Ca’ Giustiniani) con centoquattro progetti (la Ferrari ne ha portati quattro), con poche «archistar» (Jean Nouvel, Richard Meier) e con tanti buoni progettisti. Un percorso quasi senza tempo che si conclude con la ricerca di nuovi «common ground» per l’architettura: da quello della green economy (davanti all’Italia riciclata di Pistoletto c’è quella consapevole che può produrre energia elettrica pedalando su dieci spinbike) a quelli legati ai progetti «GranTouristas» e «remade in Italy», veri esperimenti virtuali «in divenire» giocati sulla forza di Facebook e Twitter.
Ma non sono che alcuni dei tanti modi di fare architettura messi insieme da questa Biennale, scenografica fin dall’inizio (l’installazione luminosa «Gateway» di Norman Foster). Dove in qualche modo si cerca di esplorare possibili variazioni sul tema: dalla serialità -copia di «Copycat» di Cino Zucchi al rapporto spesso difficile con i media (il contestato progetto per l’Elbaphilarmonie di Herzog e de Meuron a Amburgo viene solo raccontato dalle polemiche sulle prime pagine dei quotidiani tedeschi). Un percorso certo più fresco e coinvolgente di quello firmato (nella XII edizione) da Kazuyo Sejima, dove anche le archistar si ritrovano inserite in un contesto più generale (la «Scheggia» di Renzo Piano figura all’interno di un lavoro dedicato alle strade e ai cieli di Londra). Dove c’è un sorprendente bar chiamato Torre Davide / Gran Horizonte (firmato dal gruppo Urban Think-Thank) ispirato al progetto di recupero di una favela venezuelana. Dove c’è tanta arte, da Ai Weiwei alla citazione di «Guernica»: bellissima, ad esempio, la sala che mette a fianco la «Femme de Venise» di Alberto Giacometti alle figure di Hans Josephson. E dove sembrano acquistare finalmente consistenza i Paesi emergenti: dalla Malesia, al Cile ai Paesi arabi.
Un percorso chiaro, senza tanti fronzoli. Di cui il Padiglione italiano rappresenta un tassello essenziale, al quale sarebbe servita forse qualche indicazione in più (per spiegare, ad esempio, la prima sala delle felci). Ma che funziona. Soprattutto perche oltre alla nostalgia del tempo di Olivetti, al passato dei capannoni-casa, al presente degli stabilimenti dei buoni professionisti e al futuro giocato sui network c’è anche il modo di raccontare (spesso con l’ausilio di mappe colorate ed efficaci) persino la fragilità del nostro territorio.
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