E Zuma ordina un’inchiesta

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La polizia si difende dopo il massacro: «Abbiamo fatto il necessario, è stata legittima difesa» Il presidente del Sudafrica Jacob Zuma si è detto «scioccato», dopo la sparatoria di giovedì, quando la polizia in completo assetto antisommossa ha aperto il fuoco su una folla di minatori in sciopero e ne ha uccisi 34. E ha ordinato un’inchiesta, per stabilire come siano andate le cose: cosa abbia trasformato uno sciopero per aumenti salariali nella miniera di platino di Marikana, un centinaio di chilometri a nordovest di Johannesburg, nella scena di un massacro come non avveniva in Sudafrica dai tempi dell’apartheid. Molti dettagli stanno nelle immagini girate giovedì dalle televisioni davanti alla miniera, le testimonianze raccolte dai cronisti, quelle dei dirigenti sindacali e degli ufficiali di polizia. Le immagini, in primo luogo: mostrano decine di minatori su una collinetta rocciosa vicino agli impianti (chiusi da quando era cominciato lo sciopero una settimana prima), uomini con facce che sprizzano rabbia e agitano lance e machete – qualcuno lecca la lama. Poi mostrano, circa 150 metri di distanza, una linea di veicoli blindati della polizia, quelli chiamati nyala (dal nome di una gazzella africana): erano là  stazionati dal giorno prima, mercoledì, con un contingente di circa 3.000 agenti, incluse le tute mimetiche degli uomini dei commando di élite antisommossa. La polizia aveva annunciato che, falliti i «negoziati» con i lavoratori, avrebbe «fatto ciò che era necessario fare» per sgomberare gli scioperanti. Le immagini mostrano quindi un gruppo di minatori che muove verso la linea della polizia, agitando lance e machete. Una falange di agenti (neri e bianchi), protetti da elmetti e giubbotti antiproiettile, punta i fucili automatici ad altezza d’uomo. Poi spara: un minuto a poco più (il filmato è preso da dietro la polizia) di raffiche intense sollevano polvere e fumo. In un filmato si vede un ufficiale (bianco) che grida più volte «basta», non sparare. Qualcuno ieri ha fatto notare che in nessun filmato si sente dare l’ordine precedente, quello di sparare. Il capo della polizia, Riah Phidega, ieri ha confermato il bilancio: 34 minatori morti, 78 feriti. La polizia «ha fatto quel che poteva con ciò che aveva», ha detto la signora Phidega in una conferenza stampa (dice che non bisogna usare la parola «massacro»). Le scene qui descritte farebbero pensare che un gruppo di poliziotti, vistosi circondare da uomini non proprio pacifici (nei giorni precedenti due agenti erano stati uccisi a colpi di machete), preso dal panico abbia sparato all’impazzata, oltre ogni logica. Ma non è questa la ricostruzione della signora Phidega: niente panico, niente reazione eccessiva, solo «autodifesa». «Il gruppo armato correva verso la polizia sparando e brandendo armi pericolose», e gli agenti «sono stati costretti a usare il massimo della forza per difendersi». All’alba di ieri la polizia circondava quella che ormai la stampa locale chiama «la collina degli orrori». Sulla scena, circondata dal nastro segnaletico, ispettori stavano raccogliendo reperti – lance, machete, bossoli e caricatori usati – e facendo i rilievi per la futura inchiesta. Sembra che siano state recuperate sei armi da fuoco, tra cui una pistola tolta a un poliziotto ucciso giorni prima. A breve distanza, gli abitanti del vicino slum – la baraccopoli dove abitano i minatori – guardavano, inalberando improvvisati cartelli di protesta contro la polizia. A metà  giornata non tutte le vittime erano ancora identificate. Qualcuno ieri in Sudafrica ha paragonato il massacro di Marikana a quello di Sharpeville nel 1960, uno degli episodi più sanguinosi dell’apartheid. Il giornale The Sowetan si domanda cosa sia cambiato, se «i neri continuano a essere trattati come oggetti». Paragone imbarazzante, tanto che il presidente Zuma ieri, rientrato precipitosamente da un vertice regionale in corso in Mozambico, ha fatto appello all’unità  e a evitare il «gioco dell’addossare responsabilità » (ma non ha fatto commenti sull’operato della polizia). «Crediamo che ci sia abbastanza spazio nel nostro ordinamento democratico perché ogni disputa sia risolta attraverso il dialogo», ha detto. In una conferenza stampa molto emotiva, ieri il leader della Association of Mineworkers and Contruction Union (Amcu), Joseph Mathunjwa, ha addossato una grande parte di responsabilità  per l’accaduto all’azienda, la Lonmin, che ha disconosciuto gli impegni presi all’inizio della settimana verso quei minatori addetti ai pozzi, la mansione più pericolosa e malpagata della miniera: erano stati loro a mettersi in sciopero chiedendo aumenti. La Amcu è nata una decina d’anni fa da una costola del più noto Num (National Unione of Mineworkers), sindacato dalla storia gloriosa di lotta contro l’apartheid e ora molto vicino al governo dell’African National Congress. Mathunjwa ieri ha criticato i media che hanno descritto gli eventi a Marikana come una guerra tra i due sindacati. Mercoledì il leader della Amcu era andati ai piedi della collina per pregare i lavoratori di desistere: il sindacato li avrebbe difesi, diceva loro, «ma sapere che la polizia ha dichiarato questa una zona di sicurezza»: desistete, o sarà  un bagno di sangue. Ieri lo ha ricordato, in lacrime per non essere riuscito a convincere i minatori a non farsi ammazzare. Testimoni dicono che quei testoni avevano fatto un incantesimo e si credevano immuni dai proiettili.


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