E ora Assad si sente più forte

by Editore | 28 Agosto 2012 14:55

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Si sente più forte il presidente siriano Bashar Assad, tornato due giorni fa sulla scena per ribadire che Damasco lotterà  in ogni modo per respingere quello che ha descritto come un complotto di paesi occidentali, arabi e di Israele contro la Siria. Tanto più forte da alzare l’asticella delle condizioni per avviare un negoziato con l’opposizioni. La richiesta di un abbandono del potere da parte di Assad è «totalmente inaccettabile», ha detto ieri il sottosegretario per la riconciliazione nazionale, Ali Haidar, in visita a Tehran. A rafforzare Assad è anche la secca smentita delle defezioni di due pezzi da novanta del regime. Domenica è riapparso in pubblico il vicepresidente Farouk a-Sharaa, dato per fuggito in Giordania innumerevoli volte dai ribelli e dal loro organo semi-ufficiale di informazione, la televisione saudita al-Arabiya. Poco dopo il ministro degli esteri siriano, Walid Muallem – anch’egli dato sul punto di fuggire da voci circolate nei giorni scorsi – ha affermato che «la condizione per ogni negoziato politico è che cessino le violenze dei gruppi armati e che venga fatta una dichiarazione contro ogni intervento armato straniero in Siria».
Il prolungarsi della guerra civile, la solidità  (apparente) del potere di Assad e dei vertici del regime, il bagno di sangue quotidiano in Siria, sembrano spingere alcuni paesi arabi a proporre soluzioni alternative all’«interventismo» di Qatar e Arabia saudita (sponsor dei ribelli) in Siria, che mira anche ad isolare l’Iran. L’Egitto ha di nuovo difeso la proposta di creare un gruppo regionale di contatto sulla Siria che includa anche l’Iran, ritenendo che Tehran debba «essere parte della soluzione (della crisi siriana, ndr)», ha detto Yasser Ali, portavoce del presidente egiziano Morsi. «Risolvere il problema siriano richiede la presenza di tutte le parti attive nella regione», ha spiegato Ali, sottolineando come Tehran sia un «alleato influente» del regime di Damasco. 
La proposta di un gruppo di contatto regionale (che includerebbe anche Arabia Saudita e Turchia) era stata avanzata da Morsi in occasione del recente vertice dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica alla Mecca. In senso opposto vanno le dichiarazioni fatte ieri dal presidente francese Francois Hollande. «La Francia riconoscerà  il governo provvisorio della nuova Siria non appena sarà  formato», ha annunciato. 
Sul terreno l’esercito siriano è sempre all’offensiva, ma i ribelli riescono a mettere a segno punti a loro favore. Ieri hanno abbattuto un elicottero da combattimento nei pressi di Damasco e sono riusciti ad tendere agguati alle forze regolari nei pressi della piazza del Abbasidi, vicino alla stadio. Ribelli e regime si scambiano accuse sulla strage di civili avvenuta a Daraya, la più grave dall’inizio della crisi. Filmati amatoriali visibili in rete mostrano decine e decine di corpi, anche di donne e bambini, uccisi da colpi sparati a distanza ravvicinata o dilaniati dalle esplosioni. L’opposizione punta il dito contro i soldati e la shabiha, la milizia filo-governativa, che avrebbero dato una punizione durissima a Daraya, per il suo appoggio alla rivolta, massacrando tra 200 e 400 civili. I mezzi d’informazione governativi al contrario mettono sotto accusa i ribelli. Non ci sono fonti indipendenti a chiarire chi abbia compiuto la strage. L’orrore è l’unica realtà  accertata.
Intanto altri rappresentanti cristiani denunciano la crescente presenza di jihadisti tra le file dei ribelli, mentre la radio Vaticana ha riferito che l’arcivescovo di Aleppo – Jean-Clement Jeanbart – è fuggito in Libano dopo che i locali dell’arcivescovado greco-cattolico di cui è a capo erano stati saccheggiati. L’arcidiocesi, ha spiegato Jeanbart, è stata violata e saccheggiata da «gruppi non identificati, che intendono alimentare una guerra confessionale e coinvolgere la popolazione siriana in conflitti settari». Secondo l’arcivescovo tra i ribelli ci sono «fondamentalisti che vengono dalla Libia, dalla Giordania, dall’Egitto, dall’Afghanistan, dalla Turchia e da molti altri paesi». Da parte sua il Telegraph rivela che dozzine di ribelli sono stati fatti uscire dalla Siria per essere addestrati in un tranquillo quartiere di Istanbul all’uso di strumenti di comunicazione messi a disposizione da Usa e Gran Bretagna.

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