by Editore | 17 Agosto 2012 9:58
MILANO — L’Europa si dia una mossa. Quella della Bce e dei governi, verso l’unità di costrutto politico. Quella dei banchieri, contro barriere sempre più alte se si tratta di capitale e liquidità e protezionismi. Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, chiama tutti a remare nella stessa direzione, perché tra sei mesi potrebbe tornare il vento buono. Allora l’Italia e le sue banche potrebbero riprendersi ciò che la crisi ha tolto.
La Bce vede le imprese italiane a rischio insolvenza. Perché i 250 miliardi di prestiti agevolati Bce presi dalle banche italiane non diventano crediti? Cosa fa Unicredit?
«Noi un po’ in controtendenza non abbiamo usato i fondi dell’asta Bce per comprare titoli di stato, mantenendo circa lo stesso livello di dicembre in portafoglio, anche se questo ci è costato qualche beneficio nel conto economico. Ma stiamo cercando di usare la liquidità per fare credito. Negli impieghi Unicredit in Italia si vede una leggera flessione ma con un distinguo importante: scendiamo sulle grandi imprese, perché stiamo portando i loro rischi sul mercato dei capitali».
Non è che ne escono altre creative “traslazioni di rischio” tipo i bond Parmalat o Cirio?
«Chiarisco che qui si tratta bond societari offerti solo a investitori istituzionali. A giugno eravamo secondi in Europa nel collocare corporate bond a investitori istituzionali: 33 miliardi di euro, 140 bond in sei mesi. Un terzo dei fondi è andato a imprese italiane. Nei prossimi mesi vogliamo estendere la pratica alle aziende di media taglia».
Girare crediti al mercato per voi è anche un’esigenza: gli impieghi non reggono con questi costi di raccolta. Come si esce dalla bancarizzazione delle imprese?
«Forse in passato le banche italiane hanno favorito troppo la dipendenza delle imprese dal credito. Oggi serve far capitalizzare di più le aziende dagli imprenditori, andare verso il capital market, con bond ma anche fondi di private equity e, incentivare la crescita dimensionale snellendo la burocrazia, il carico fiscale e la rigidità del
lavoro».
Quindi la ripresa arriverà con l’anno nuovo?
«Da gennaio un’inversione di tendenza ci sarà . Noi stimiamo un Pil italiano a -0,3% nel 2013, e una crescita europea di poco superiore all’1%. Credo che tra fine anno e inizio 2013 il credito riprenderà anche in Italia, molte aziende torneranno a investire».
Gli operatori scontano ormai una mossa pesante della Bce. Lei cosa si aspetta?
«Che la Bce faccia la banca centrale, dando liquidità al sistema se serve, come nei mesi scorsi, e intervenendo se si inceppano i meccanismi di trasmissione della politica monetaria. Spread così distanti in un’area che ha una valuta unica sono una anomalia. Credo che nel breve termine basterà un piano di acquisti di bond sovrani dell’Eurotower, mentre gli interventi più strutturali è giusto siano legati a richieste di aiuto specifiche
degli stati».
Il min istro del Tesoro Grilli ha detto che l’Ischio talia non chiederà aiuto. Dovrebbe?
«Non vedo la necessità . Quel che il nostro paese deve fare, però, è convincere i mercati che le misure portate avanti dal governo Monti possano continuare nel tempo. E alla prossima campagna elettorale spero che i partiti sappiano formulare programmi economici chiari, soprattutto agli investitori stranieri. Ero a Londra a vedere la chiusura delle Olimpiadi, e ho sentito che aria tira tra i banchieri della City. Nessuno teme che l’Italia rischi il default, o abbia bisogno di assistenza finanziaria. Ma tutti mi hanno chiesto cosa succederà al paese dopo Monti».
Siete leader bancari in Italia, Germania, Austria, Polonia. Che effetto fa lavorare in paesi agli opposti finanziari?
«Vediamo un approccio abbastanza nazionalistico da parte di tutti i regolatori. E non parlo solo del caso tedesco. C’è un approccio abbastanza chiuso ovunque, si cerca di essere indipendenti sulla liquidità nei paesi, trasferendo ai clienti gli spread sovrani. Ma è più un problema politico: l’Europa deve scegliere se tenersi le banche regionali o averne una ventina continentali, cui serve un mercato libero».
Ritiene che Unicredit sia a riinfine, scalata?
«Dubito che oggi ci siano banche internazionali interessate a investire in altre banche di dimensioni significative (anche italiane) sia per i problemi di capitale sia per la probabile reazione negativa delle autorità . E mi sento tranquillo anche riguardo a Unicredit”.
Alle ricapitalizzazioni di Unipol e Fonsai mancano 660 milioni. Rischiate un pesante accollo.
«Dopo Ferragosto le banche del consorzio e Unipol si rivedranno per decidere quando fare l’asta sui diritti inoptati. Dopo l’asta vedremo. Intanto noto che Blackrock ha raccolto il 5% di Unipol, e dato che sono anche azionisti nostri so quanta analisi fanno prima di investire. E’ un segno che l’operazione ha valore industriale. Noi comunque nel medio termine non resteremo azionisti Fonsai. Vogliamo evitare conflitti di interesse e concentrarci nel core business ».
Il caso Fonsai mette in discussione il vertice di Mediobanca e più in generale l’assetto del salotto buono capitalistico. Ci sarà tempesta su Alberto Nagel nel cda del 5 settembre?
«Non mi aspetto nessuna tempesta. È strano: in Italia tutti ce l’hanno coi salotti, ma tutti vorrebbero esserci. Dal capitalismo di relazione si esce solo se cresce il numero di aziende medie e grandi, oggi inadeguato. Ma è chiaro che gli eventi degli ultimi mesi sottolineano che un cambiamento in essere c’è. E noi lo seguiamo positivamente. Per noi, comunque, Mediobanca rimarrà una partecipazione
strategica».
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