Chi ha marciato e chi ci marcia

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E mentre fa i conti con la giustizia, libera lo sport dalla retorica esaltata di «orgoglio e sacrificio» in questo carnevale olimpionico del nazionalismo. Con orgoglio certo difende quell’oro vinto a Pechino 2008, con precisione racconta il sacrificio di quei chilometri marciati in solitudine durante gli allenamenti, di quella vita sottratta alla normalità  364 giorni all’anno, in cambio di un giorno di gloria. Il dietro le quinte di una medaglia d’oro in «uno sport definito minore» – perché, ricorda Schwazer, «non stiamo parlando di calcio» – può essere insopportabile per un ragazzo intelligente. E la sirena del doping che lo ha incantato suona adesso come il suo grido d’aiuto, inascoltato finché da Londra non gli è arrivata la telefonata che comunicava il responso del controllo: positivo all’epo. Schwazer è stato lasciato solo e tutto da solo ora sta venendo fuori da questa storia. È stato capace di riconvertire la volontà  caparbia che ci vuole a macinare 40 chilometri al giorno, 9000 in un anno, per raccontare quello che nessun atleta italiano è mai riuscito a denunciare. Non vuole coinvolgere altri che se stesso e sceglie di non puntare il dito contro la federazione, che invece lo addita come il «traditore». Se davanti ai giudici troverà  altro coraggio per scardinare il meccanismo infernale in cui è precipitato, facendo i nomi di chi in Italia maneggia il doping mettendo a rischio salute e carriera degli atleti, ora che ha deciso di ritirarsi per sempre e non ha nessuno da proteggere, Schwazer potrà  appendersi al collo la sua quinta medaglia. 
Il suo è un buon esempio che svela spietatamente il lato nero dello sport, ci costringe a guardare dietro una medaglia o una sconfitta. L’oscuro c’è, alimenta le pressioni dell’agonismo e può finire in un’iniezione di eritropoietina. Scandalizzarsi è facile, rovesciare il tavolo no. «Ho distrutto la mia vita» singhiozza Alex Schwazer, forse si sbaglia, ha appena cominciato a riprendersela.


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