by Sergio Segio | 31 Agosto 2012 15:21
ROMA — «In Europa sta accadendo qualcosa di simile a quanto successe ai tempi della crisi debitoria in Sudamerica negli anni ‘80. Anche lì un Paese dominante, gli Usa, aveva in mano la soluzione e prendeva (anzi perdeva) tempo. Solo quando capì che l’unica via era una cancellazione unilaterale estesa dei debiti, la situazione si risolse». Jeffrey Sachs, classe 1954, economista prima di Harvard e ora della Columbia, è in Italia su invito di Angelo Riccaboni, rettore dell’Università di Siena, per avviare una collaborazione fra l’ateneo di New York e quello toscano in tema di sostenibilità economica, ambientale, sociale. Lei è un economista da battaglia che deve la fama prima ai salvataggi latinoamericani poi alle consulenze a Polonia, Estonia e Russia nella transizione all’economia di mercato. La Germania degli anni 2000 è come l’America degli anni ’80? «Certo, ci sono differenze ma sui tempi. Io rimasi due anni, il 1983 e l’84, fra Bolivia e Perù per impostare i piani di risanamento, poi andai a Washington per dire: guardate che se non cancellate i debiti non se ne esce. E’ stata durissima convincerli: il piano Brady è dell’89». Però c’è già stato l’haircut sul debito greco e a pagare sono state soprattutto le banche tedesche. «L’haircutnon è bastato anche perché ha riguardato solo i privati. Lo sforzo di assorbire le perdite va allargato alla Bce, alla Bei e alle altre istituzioni, anche se l’onere ricadrà sui contribuenti. Ora c’è il banco di prova degli acquisti dei titoli, appena Draghi avrà mano libera: ad essi non va garantita alcuna seniority per rendere più credibile e decisivo l’intervento. Tutti devono essere uguali di fronte alla necessità di salvare chiunque sia in pericolo: questo vuol dire essersi vincolati con una moneta unica. Certo, il rigore di bilancio ha la sua parte: si dovrebbe impegnare Atene a presentare conti perfettamente in ordine fra 5 o 10 anni. Non subito. E questo vale anche per l’Italia. Sennò non c’è nessuna possibilità di riprendere la crescita». Ora la cancelliera Merkel, per quanto contestata nel suo Paese, si sta faticosamente convincendo che tutti stanno facendo la loro parte: è una fiducia genuina? «Che serva un grande impegno non convenzionale per il solo fatto che si è legati nell’euro, non è ancora chiaro ai tedeschi nella loro generalità , a finlandesi e olandesi. Non hanno deciso se sostenere i Paesi più deboli. Il guaio è che non circolano abbastanza informazioni in Germania sui vantaggi dell’euro, c’è un corto circuito fra università , operatori e governanti che impedisce la diffusione di quella cultura tecnico- analitica che farebbe capire che la solidarietà è l’unica via praticabile. Sono tre anni che si va avanti così, temo che bisognerà attendere ancora. Fa bene Monti, con il suo carisma internazionale, a proseguire pazientemente nell’opera di evangelizzazione. Per i Paesi nordici quello che è buono è buono, i cattivi sono cattivi, chi si è comportato bene è bravo e basta, non c’è possibilità di mediazione. Ma se salta la Grecia è finito l’euro: il trauma non sarebbe riassorbibile».
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