by Editore | 3 Agosto 2012 8:26
BERLINO — Molti tedeschi, oggi, si sentono come una quarantina di anni fa: alla fine di un grande e imprevisto boom, prima di un profondo e temuto precipizio. Non è detto che abbiano ragione, ma la sensazione esiste. Dal 1945 — l’anno zero della Germania postbellica — ai primi anni Settanta la parte Ovest del Paese era riuscita a trasformarsi in un peso massimo dell’economia mondiale. Le politiche del cancelliere Konrad Adenauer e del ministro dell’Economia Ludwig Erhard, il marco e il lavoro duro avevano fatto il miracolo. Poi arrivò la crisi del petrolio, l’insicurezza e la fine della crescita.
Oggi, quarant’anni più tardi — e dopo un altro exploit economico che ha visto la Germania crescere, e tanto, mentre la crisi mordeva una buona parte del mondo — le nubi tornano ad addensarsi sui cieli di Berlino, Monaco e Amburgo. Lo dicono i tedeschi stessi, in un sondaggio «pessimista» sul futuro con tanto di percentuale bulgara. Innanzitutto, la quota di chi pensa che l’anno prossimo le cose peggioreranno per l’economia nazionale è passata dal 32 al 56 per cento in soli tre mesi. Poi — nella rilevazione di Infratest Dimap, anticipata da Die Welt e Ard — la percentuale sale addirittura all’84% se entra in gioco la crisi dell’euro: tanti sono i tedeschi che pensano che il peggio debba ancora arrivare. Eppure — ribattono all’estero — se solo la Germania fosse un po’ meno rigorosa, forse l’eurocrisi passerebbe prima per tutti. Indipendentemente da chi ha ragione, resta comunque il fatto che la «Germania felix» di solo qualche mese fa rischia ora di perdere il fortunato aggettivo.
Ci sono poi i dati dell’economia: la disoccupazione di nuovo in salita, il mercato dell’auto in calo e gli indici manifatturieri in contrazione. Certo, il Pil continua comunque a crescere e i tassi — qui — sono bassissimi. Ma a inizio anno il quadro era ben più roseo, da boom. Per capire meglio la situazione, basta dare un’occhiata allo sguardo che i tedeschi rivolgono a Sud. Non a noi italiani, e non per questioni legate al debito. Ma, senza valicare le Alpi, agli svizzeri. Come quelli di lingua tedesca, spesso considerati in passato alla stregua dei cugini «più piccoli»: parlano una lingua lontana dai purismi di Goethe e Schiller — sentenziavano con un certo snobismo non pochi tedeschi metropolitani — e non hanno la potenza industriale del «made in Germany».
Eppure, adesso, la musica è cambiata. Solo due giorni fa la ferrovia elvetica del monte Jungfrau ha compiuto 100 anni. Qui in Germania i giornali hanno dedicato intere pagine all’anniversario. Piene di stima. Con i suoi 3.454 metri sul livello del mare, il punto più alto della ferrovia svizzera surclassa perfino la montagna più alta di tutta la Germania, la Zugspitze, 2.962 metri; nessuno lo ha scritto, ma in molti per strada lo hanno pensato. Così il grande Paese dell’industria high tech si è «inchinato» alla tecnica del piccolo vicino d’oltre Reno. Dallo snobismo all’ammirazione. Come succede anche nella finanza, nonostante le tensioni sui conti elvetici dei paperoni tedeschi. La banca centrale svizzera è diventata un peso massimo del mercato monetario internazionale, con una riserva di valuta estera che è ormai la sesta al mondo, capace di muovere i cambi di tante divise che un tempo ruotavano intorno alla Germania. Certo, per la Confederazione questo può anche svelare un problema (la difesa del cambio da apprezzamenti) e la Germania, grazie all’euro, è più competitiva e si finanzia a costo zero. Ma ciò non ha impedito a molti commentatori tedeschi di parlare di «modello svizzero». Non tanto per l’indipendenza valutaria, ma perché, nonostante il franco forte e l’euro debole, l’export procapite di Berna supera dell’80% quello della superpotenza industriale tedesca. Che, magari, è sempre lo stesso gigante di ieri. Ma, adesso, meno fiducioso nel futuro.
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