Zaino e kalashnikov contro elicotteri In marcia tra gli ulivi con i ribelli siriani

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AL-ATAREB (Periferia di Aleppo) — «Ma se non abbiamo armi qui, a pochi chilometri dal confine turco, come potete credere che ce ne siano di più efficienti e numerose all’interno, dopo Aleppo e a Damasco? La verità  è che non abbiamo quasi nulla, combattiamo a mani nude contro un nemico che riceve il meglio della tecnologia bellica russa e cinese». E’ sorpreso Abu Ibrahim che gli venga chiesto dove sono le sue armi, oltre al kalashnikov a tracolla con un paio di caricatori vuoti appesi alla cintura. Uno dei capi della Qatiba (Brigata) «Nur al Islam» (Luce dell’Islam) venuto a prenderci alle due di notte a poche centinaia di metri dal reticolato di frontiera si dimostra ben contento di ospitare giornalisti stranieri tra i suoi circa 150 guerriglieri volontari delle regioni orientali. Ma ci tiene anche a lanciare quello che sarà  il messaggio più ripetuto per tutte le 24 ore seguenti: «Non vogliamo la Nato. La Siria non è la Libia. Possiamo battere la dittatura da soli, i sunniti sono stanchi dell’arroganza della minoranza alauita (una setta sciita, ndr). Ma ci servono armi e munizioni contro i carri armati e gli elicotteri di Assad. Se solo avessimo 500 Rpg (i lanciagranate efficienti contro i tank) e qualche missile terra-aria, come quelli che usavano i mujaheddin afghani contro i sovietici un quarto di secolo fa, la Siria sarebbe libera già  da un bel pezzo».
Comincia così il viaggio da «embedded» con i partigiani della rivoluzione siriana. Una camminata con gli zaini in spalla al buio, ma relativamente breve, meno di due ore, nella terra di nessuno poco distante da Bab El Hawa, il passaggio di frontiera catturato dalle brigate rivoluzionarie pochi giorni fa che ora le truppe regolari vorrebbero riconquistare. Poi un camion in attesa tra gli ulivi, che in mezzoretta di straducole e sterrati ci porta in una casetta di pietre e cemento grezzo in mezzo alla campagna. Quindi la riunione con una decina di uomini felici di offrici la cena (yogurt, verdure, formaggi di capra, zatar, olio d’oliva, pane azzimo e tè dolcissimo) per celebrare queste prime giornate del Ramadan in attesa «della totale presa di Damasco». Infine la scoperta di quanto la situazione sia cambiata rispetto a dicembre scorso, quando a ridosso del confine turco si doveva restare nascosti per giorni interi, correre di notte nelle zone esposte e pregare comunque di non essere presi dalle pattuglie siriane, o ancora peggio dalla soldataglia della shabiha (i volontari irregolari di Assad) che torturano e uccidono senza neppure capire bene chi sei. «Ora tutte le campagne sono nelle nostre mani. L’esercito regolare è asserragliato nelle città  maggiori. Ma ha crescenti problemi di movimento per gli approvvigionamenti. Noi attacchiamo di continuo i convogli nella speranza di impadronirci di armi e munizioni», spiega Mohammad Al Zur, 25 anni, capo di un manipolo di volontari tra i più giovani, alcuni armati di vecchi fucili da caccia, altri di coltelli e vestiti con improbabili mimetiche turche larghe cinque taglie più della loro. Nulla a che vedere con la sarabanda di spari in aria, uniformi fantasiose, ma sempre ricercate, e gimcane folli dei pick up con i mitragliatori pesanti montati sui cassoni posteriori che un anno fa colorava il movimento delle truppe ribelli verso Tripoli. «In Libia c’erano soldi, tanti soldi, munizioni a volontà  e soprattutto c’era l’ombrello della Nato. In Siria c’è povertà , poca benzina, e certo nessun proiettile da sprecare stupidamente», dicono al comando della brigata nell’edificio a tre piani della municipalità  nel villaggetto di Kah. Scritte inneggianti ad Allah e all’«Intifada dell’Islam» rosso vermiglio sui muri. All’interno stanno smontando una pompa per l’acqua in acciaio modello turco «Vansan» ancora chiusa nel contenitore originale di legno. «Ci si fabbricano ottimi mortai artigianali», dice uno dei guerriglieri esperto nel maneggiare esplosivi.
Per tutta la notte e la mattinata di ieri si odono bombardamenti in lontananza. Non sembrano troppo intensi. Pure i colpi arrivano ogni due o tre minuti, regolari, insistenti. A volte, i più intensi fanno tremare il terreno. Verso mezzogiorno, corsa veloce in auto verso Aleppo. Le strade sono deserte e non solo per il riposo del Ramadan. Ogni tanto s’incontrano scheletri di camion e carri armati leggeri. L’energia elettrica è presente a intermittenza. Alcuni villaggi ne sono totalmente tagliati fuori. Il pericolo viene dall’aria, non da terra. «Se vi diciamo che ci sono gli elicotteri state pronti a saltare fuori», dicono i partigiani. Fa un caldo oppressivo. Per allentare la tensione si parla di politica. Cosa pensate delle mediazioni di Kofi Annan e degli osservatori Onu? «Annan è totalmente inutile. Non si capisce a che serva e perché cerchi di coinvolgere la Russia di Putin, che è una dittatura in piena assonanza con gli aguzzini di Assad. Gli osservatori Onu e della Lega Araba sono invece turisti che vengono a vedere le nostre vittime massacrate». E i vostri rappresentanti del Congresso Nazionale Siriano all’estero? Quest’ultima domanda scatena un moto di collera. «Sono zero», risponde l’autista disegnando nell’aria un grande cerchio con l’indice della mano destra. «Sono politici in erba che non valgono nulla, innamorati solo dei loro portafogli e degli hotel a cinque stelle a Roma, Parigi e Londra. Non ci rappresentano affatto. Per noi conta solo chi combatte e soffre in Siria. Alla fine faremo le elezioni tra noi e individueremo gli autentici rappresentanti». 
Nel villaggio di Addana troviamo un garage dove vendono benzina a brocche di cinque litri. Due dollari al litro in un Paese dove il reddito mensile medio ora non supera i 100 dollari. Segue un posto di blocco volante con la bandiera a tre stelle delle truppe rivoluzionarie. Passiamo, ma a malapena. Più avanti si combatte alle periferie di Aleppo. Facciamo però in tempo a raggiungere il centro della cittadina di Al-Atareb. All’entrata due auto con le bandiere nere dei volontari delle brigate internazionali salafite, alcuni legati ad Al Qaeda, ci sfrecciano vicino. Ieri ci avevano detto che Al-Atareb era stata danneggiata. In realtà  è distrutta, un mare sconvolto di rovine grigiastre, ricorda le foto di Homs pochi mesi fa, o Sirte l’anno scorso. Praticamente non c’è edificio che non sia stato colpito. I danni maggiori sono nel centro: l’asfalto delle strade bucato dalle bombe, negozi bruciati, appartamenti abbandonati tra le macerie. «Oltre 40.000 abitanti sono fuggiti. Tanti sfollati in Turchia. Altri hanno trovato aiuto nei Paesi vicini», spiega Abed Abdul Razak, 22enne ex soldato dell’esercito regolare che cinque mesi fa è passato tra le file della rivoluzione. «Ogni tanto mi metto in comunicazione via skype con miei ex compagni nell’esercito. In tanti vorrebbero disertare e raggiungermi. Ma hanno paura per le loro famiglie. Temono ritorsioni», spiega. Non c’è molto tempo per parlare. «Le truppe speciali siriane sono sulle colline qui attorno. Potrebbero riprendere a bombardare in ogni momento», dicono le sentinelle della brigata. Ma Abed insiste per un motto di speranza. «Ormai Assad ha i giorni contati. Farà  la fine di Gheddafi. Forse ancora due o tre mesi e prenderemo Damasco. Non gli servirà  scappare nelle regioni sciite attorno a Latakia. È un cane braccato. Mostreremo il suo cadavere a tutti i siriani per far capire che sta iniziando una nuova era per la Siria libera».


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