Vince il popolo dei referendum “L’acqua non può essere privata”
ROMA — Vince il popolo del referendum, la Consulta boccia la norma sulle privatizzazioni dei servizi pubblici. L’Alta Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 della Finanziaria- bis 2011 che disponeva la possibilità per gli enti locali di liberalizzare i servizi pubblici, dai quali la stessa manovra escludeva però l’acqua, cavallo di battaglia della campagna dei referendari contrari alle privatizzazioni. Tuttavia la bocciatura alla privatizzazione di questi servizi ridà nuova linfa ai movimenti dell’acqua che parlano di una grande vittoria. «Dalla Consulta è arrivata la conferma che l’acqua è un bene comune», scrive sulla sua pagina Facebook Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, che ha fatto parte del comitato referendario.
Come è noto nel giugno 2011 la liberalizzazione dei servizi pubblici fu sottoposta a due quesiti referendari, vinsero i sì, cioè i favorevoli all’abrogazione della legge allora in vigore. Adesso l’Alta
Corte ha stabilito l’illegittimità dell’articolo 4 della Finanziariabis 2011 perché viola l’articolo 75 della Costituzione, che vieta il ripristino di una normativa abrogata dalla volontà popolare attraverso referendum. La Consulta, infatti, rileva che quell’articolo ripropone nella sostanza la vecchia norma che la consultazione voleva cancellare. Anzi la restringe e la peggiora.
Il democratici, con Umberto Marroni, capogruppo Pd di Roma Capitale e Marco Causi, deputato in commissione Finanze, parlano subito di «bocciatura della delibera del sindaco Alemanno » sull’Acea. Il sindaco di Roma afferma che la sentenza «non annulla i suoi atti». La polemica continuerà a tenere banco. Nichi Vendola, governatore di una delle due regioni che ha presentato il ricorso, sottolinea la «vittoria» della Puglia. «Ma soprattutto – dice – ha vinto la democrazia
».
La Corte Costituzionale rileva che l’intento referendario era quello di superare le limitazioni, rispetto al diritto comunitario, delle ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in housedi pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (compreso quello idrico). La nuova normativa, osservano però i giudici, «non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, ma è letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni
della legge cancellata». Da un lato «rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi», dall’altro la lega al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, oltre la quale è esclusa la possibilità di affidamenti diretti. Soglia che
scende rispetto a quanto previsto nel testo precedente, passando da 900 mila a 200 mila euro.
Con la sentenza vengono bocciate anche le successive modificazioni, comprese quelle apportate dal governo Monti a dicembre. «Allo stesso modo —
rileva Vendola — sarebbero a rischio quelle contenute nel decreto sulla Spending review che mira a fissare gli stessi limiti, appena abrogati dalla Corte Costituzionale, sulle società in house ».
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