UNA VOCE A FUTURA MEMORIA SERMONTI: “OVIDIO EVIRGILIO ECCO IL MIO ARCHIVIO SONORO”

by Editore | 21 Luglio 2012 13:30

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Lasciare “in eredità ” la propria voce. Soltanto un uomo di cultura decisamente sui generis come Vittorio Sermonti poteva avere una simile idea, mi viene da pensare mentre nel pieno della canicola romana sto andando in direzione di Monteverde Nuovo, dove in un improbabile grottino-garage-sala di registrazione, ascolterò Vittorio leggere il Libro XIII delle Metamorfosi di Ovidio, da lui medesimo magnificamente ritradotte. In questo strano luogo, se Dio vuole bello fresco e dotato di una tecnologia avanzata, mi attendono, oltre al lettore-traduttore, la moglie Ludovica Ripa di Meana nei panni del regista amorevole e severo, e un giovane ingegnere del suono milanese, Matteo Bolzoni, che da svariate settimane passa qui le notti e i giorni condividendo con la coppia sermontiana questa “folle”’ quanto fascinosa avventura.
Negli anni passati, molti italiani hanno avuto modo di apprezzare Sermonti mentre leggeva e spiegava a platee vaste ed eterogenee prima la Divina Commedia, poi l’Eneide, anch’essa ritradotta e letta in altrettante piazze. Ora invece tutto si consuma in una silenziosa e segreta sala di registrazione, dove quella stessa voce dà  corpo all’inesausta magnificenza di Ovidio, in questo preciso istante servendoci il delizioso, speziato racconto della passione del Ciclope per Galatea. Ed ecco Polifemo, tutto preso a pettinarsi col rastrello “i capelli di stoppa” e a farsi la barba con la falce, che roso dalla gelosia mortale per Aci, si lancia in una memorabile dichiarazione d’amore rivolta a Galatea, in cui la più ingenua tenerezza si mescola a una irrefrenabile ferocia…
Inutile dire che, anche in questo caso, Sermonti si guarda bene dal “recitare”. Semplicemente legge, e naturalmente lo fa con un gusto e un mood tutto suo. Sì che incantato da questo flusso di suono e senso, sto quasi per dimenticarmi l’originaria bizzarria che ha mosso la mia visita. Già , perché non solo Sermonti ha pensato di lasciare in eredità  la cosa più volatile e effimera del mondo, per l’appunto la voce, ma addirittura lo fa a spese proprie. Ovvero, anticipando di tasca sua i soldi necessari alla registrazione.
«Credo che nell’esercizio della poesia la voce precede la scrittura, o, se preferisci, la scrittura sia la
trascrizione grafica di una musica anteriore, primaria. Che poi questa musica non sia pura partitura acustica, ma “musica del senso”, è un altro discorso, anche piuttosto scontato. Aggiungerò che la voce, e in specie la voce che dice poesia scopre, mette in gioco, letteralmente “tradisce” chi legge, perché sa di lui, che conta di controllarla, molto più di quanto non sappia lui stesso. Così, sono convinto che un archivio di foto o filmetti costituisca un documento a futura memoria molto meno rilevante e preciso di una voce che continua a parlarti. Volatile, d’accordo. Ma come ben sapevano i greci, e i latini non fanno che ripetercelo, l’anima stessa pare emigri verso il regno delle ombre come “un vento leggero”, “un lievissimo uccello”».
Sermonti torna nel suo minuscolo stanzino insonorizzato per riprendere la lettura del Libro XIII. Il sottoscritto rimane nella sala di registrazione, assieme a Matteo e Ludovica, che non perdona il minimo inciampo, incertezza, errore vocale. Giusto così: la registrazione deve essere perfetta. Non ha nulla da spartire con le peraltro memorabili letture-lezioni “dal vivo” della
Divina Commedia, da cui tutto è cominciato. «Come tutte le idee che mi sono passate nella testa negli ultimi trent’anni, in realtà  anche quella era nata nella testa di Ludovica – poeta vero e formidabile lettore – e aveva, come sempre, un carattere soavemente ingiuntivo. Nella circostanza, si prestò a spalleggiarla Gianfranco Contini, che mi avrebbe offerto la sua incomparabile competenza filologica per l’Inferno e il Purgatorio, mentre per il Paradiso gli sarebbe subentrato l’amico Segre.
Quando nella primavera dell’85 andai a trovarlo a Firenze – ma questa l’ho già  raccontata – Contini, dopo aver pazientemente ascoltato la mia ardente dichiarazione d’intenti, per verificare una qualche mia idoneità  a quel dissennato progetto, sillabò: “Mi foni”. Gli fonai scrupolosamente il canto dei cognati romagnoli (Inferno, V). E lui: “Me lo ha solfeggiato benissimo. Ora me lo legga”. Glielo lessi con la libertà  di mente e di cuore che sembrava volesse intimarmi. E proprio in ordine a quella libera esecuzione Contini decise di mettermi la mano sulla testa e condividere i rischi dell’avventura; e io mi permisi l’impudenza di leggere Dante in pubblico. “Verba manent, scripta volant”. O no?».
Poi è arrivata l’Eneide. E qui, alla voce e all’analisi testuale, si è aggiunta la traduzione per la quale, come è scritto nell’introduzione, si è utilizzato “l’italiano adoperato per pensare e per parlare”. «Già . Non vedevo modo più onesto e compiuto per documentare cosa mi succede quando leggo gli esametri dell’Eneide, che mettere in piazza gli inevitabili arbitri di una mia traduzione. Metterli in piazza registrandoli su carta e poi facendomeli uscire di bocca. Anche l’Eneide l’ho tradotta per leggerla forte. E l’ho tradotta, appunto, in un italiano che producesse suono, senza arrendersi al birignao più o meno fragoroso dei teatranti o a una qualche prosodia dialettale. E sono francamente felicissimo, in un tempo in cui
molti la danno per moribonda, di adoperare questa nostra lingua precaria, spuria, vecchia, inaspettata e stupenda. O, se vuoi, di lasciarmi adoperare da lei».
Un piacere, questo, che ora si raddoppia nell’ascoltatore come me che ha la fortuna di sentire in anteprima gli effetti in traduzione della lingua maestosa e visionaria di Ovidio. «Lavorando su Dante, mi sono trovato centinaia di volte ad avventurarmi nel suo testo. E anche, presuntivamente, nella sua testa per leggervi e tentare in qualche modo di assimilare alla contemporaneità  di cui campiamo le infinite impronte lasciate da opere che lui sapeva a memoria: innanzitutto l’Eneide e le Metamorfosi.
Così, chiusa l’Eneide e passati gli ottanta, non sapendo che fare, mi sono attenuto all’ennesima ingiunzione di Ludovica: “Perché non traduci le Metamorfosi?”.
Le ho tradotte. Un’esperienza fantastica, grazie alla quale spero di concorrere almeno un po’ a una divulgazione non specialistica o parascolastica di questa languida, irrefrenabile raffica di favole che vertono – non mi viene da dirlo meglio – sul fa-
scino erotico del cambiamento, del diventare qualcun altro, qualche altra cosa: chessò, un pipistrello, un sasso, una costellazione. O magari limitarsi a cambiar sesso. Oltretutto, associare a ridosso del testo di Ovidio il ritmo perentorio dell’esametro con la fluidità  della sintassi discorsiva dell’italiano che parliamo noi, è stato un piacere impagabile».
Il risultato è che adesso siete qui, in questa torrida estate romana, a registrare “al buio” la lettura ovidiana. Senza sicurezze sulla sua successiva destinazione. «L’editoria italiana, all’atto, non manifesta nessun particolare interesse per imprudenze del genere. Grazie al cielo Sergio Giunti, presidente dell’omonima casa editrice, è rimasto – come dire? – molto favorevolmente impressionato dal nostro lavoro su Dante, e dal prodotto multimediale che ne abbiamo cavato sincronizzando la voce al testo che scorre sullo schermo: sarà  un “e-Voice Book”, una specie di Dante in karaoke! A settembre usciremo nelle librerie in dvd con cofanetto e ci avventureremo in rete, naturalmente senza rete. A seguire, chissà , dovrebbero arrivare un Virgilio, un Ovidio, e perfino un Giuseppe Verdi…Elettronicamente parlando, io sono un somaro refrattario. Resta il fatto che il rapporto che spero di intavolare con il singolo utente del web, con il “tu” che mi ascolta e mi legge con l’interezza e l’unicità  della sua persona, mi sembra molto più congeniale dell’appello al buon senso e al buon cuore che accomuna una indistinta folla a bocca aperta. Sì, penso che la poesia sia fatta solo per il poeta che si accuccia dentro ciascuno di noi, e che soltanto nella solitudine che ci affratella irrevocabilmente tutti quanti sia possibile, come vuole Hannah Arendt, rimontare senza soggezione e senza noia l’incolmabile distanza che intercorre fra noi e i grandi classici».

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