Una scia di sangue agli albori della Fiat

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Non meraviglia più di tanto che un appassionato di cavalli, trincerato nella sua tenuta della Maremma etrusca, scriva un libro per sparare sull’industria dell’auto italiana, demolitrice di quel mondo, forse più civile del nostro, che all’automobile preesisteva. Una sorta di «operazione nostalgia» in nome del cavallo: impensabile ancora pochi anni fa ma che acquista oggi un valore nuovo di fronte al collasso ambientale e all’insostenibilità  del modello centrato sull’auto – che ormai, nell’era Marchionne, ha perduto anche qualsiasi residuo appeal come portatore di progresso e benessere attraverso il lavoro. 
Ci voleva però un gentleman torinese, con tutta la tigna che i torinesi sanno riservare ai loro concittadini quando li detestano, per dare pepe a questa operazione e mettere nero su bianco senza complimenti quel che tanti hanno sempre pensato: che l’industria dell’auto italiana per eccellenza, la Fiat di Giovanni Agnelli primo, agli albori del Novecento, forse non è nata da un ardito sogno imprenditoriale ma da un oscuro brodo di coltura fatto di intrighi, truffe, intrecci con lo Stato e persino un paio di omicidi eccellenti – in perfetta sintonia con il clima di sangue e violenza instaurato nel Paese dai Savoia per tenerne lontano il contagio socialista. 
Giorgio Caponetti, classe 1945, è un distinto professionista torinese appassionato di cavalli, trasferitosi tanti anni fa a vivere in una fattoria nella valle del fiume Marta, con armi, bagagli, famiglia, un po’ di soldi e alcuni sogni da realizzare – in primis, un modello di vita migliore da costruire per sé e da offrire agli altri con generosità  non sempre apprezzata o ricambiata. Tra i sogni, però, ce n’era anche uno molto particolare: scrivere la storia che fin da ragazzo lo intrigava, quella – svoltasi nel ventennio intorno al 1900 – del celebre cavallerizzo Federigo Caprilli, del suo amico nobile, il conte Emanuele Cacherano da Bricherasio, e della morte violenta che li colse a poca distanza di tempo, neanche quarantenni: per entrambi una morte inspiegabile, avvolta di silenzi e misteri e oscuramente legata alla folgorante ascesa nel mondo dell’industria, della finanza e della politica del cavalier, poi senatore, Giovanni Agnelli. 
Non era una storia semplice, sono passati cent’anni e passa, molti documenti sono scomparsi (forse non casualmente), non c’è più modo di trovare testimoni che possano presentarsi in un tribunale. No, un giudice che alla fine chiarisca le cose, stabilisca la verità  e faccia giustizia non c’è e non ci sarà , e per questo Caponetti insiste a dire che il suo Quando l’automobile uccise la cavalleria (Marcos y Marcos, pp. 489, euro 18) è «un romanzo storico, opera di pura fantasia» e non un libro di storia. Eppure…
Eppure i fatti sono più o meno quelli e un testimone esiste, sia pur solo nella memoria dell’autore: il nonno Benedetto, ex ufficiale dei carabinieri, negli anni cruciali in cui si svolgono le vicende narrate era in «servizio speciale» fra Roma e Torino e, da vecchio, al giovane nipote ha raccontato molte cose circa il proprio ruolo diretto nelle fasi più drammatiche di quei lontani intrighi. È mettendo insieme quei racconti con il poco che si sa delle vicende di quell’epoca che prende vita questo strano romanzo, dove i fatti sembrano assai meno fantasiosi di quanto dichiarato.
Alla fine sono quattro i protagonisti, raccontati attraverso vite parallele ma fin troppo intersecate: al brillante e geniale capitano Caprilli, eroe dei concorsi ippici di tutta Europa e delle alcove di nobildonne troppo altolocate, si affianca l’amico Emanuele da Bricherasio, come Caprilli ufficiale di cavalleria, ingenuo ed entusiasta fondatore dell’Automobile Club d’Italia nonché, nel 1899, della prima «Fabbrica Italiana Automobili di Torino», di cui è vicepresidente; e a loro si uniscono Giovanni Agnelli, a sua volta ufficiale di cavalleria ma di tutt’altra pasta e con tutt’altri progetti in testa, e infine nonno Benedetto, ufficiale anche lui ma dei carabinieri: «uso a ubbidir tacendo» ma che in vecchiaia, fuggiti nell’infamia i Savoia e dunque senza più un re cui ubbidire fino all’estremo, di «tacendo morir» non ha più tanta voglia. 
La vita di Caprilli e Bricherasio raccontata da Caponetti si snoda con varie vicende interessanti ma in fondo ordinarie e tranquille: la loro storia inizia ad accelerare in parallelo col crescere delle tensioni sociali in Italia e col traballare della dinastia Savoia, umiliata dal disastro di Adua e capace di tenersi in sella solo facendo sparare sugli operai e sui contadini. Arriva Bava Beccaris, ci sono le stragi di lavoratori, a Milano e un po’ dappertutto, e arrivano anche le prime morti avvolte nel mistero, come quella del figlio di Edmondo De Amicis, che si «suicida» proprio alla vigilia del previsto (e temutissimo dai Savoia) outing pro-socialista del padre, allora al culmine della sua popolarità  e che da quel momento non si interesserà  più di politica. È l’autunno 1898. Pochi mesi dopo, a casa del conte di Bricherasio, nasce la F.I.A.T., con Agnelli che è solo un socio tra gli altri ma grazie ad amicizie e alleanze riesce a prendere in mano la gestione commerciale dell’impresa, quella da cui passano i soldi. 
La scalata di Agnelli è rapida e senza scrupoli, passando anche – forse soprattutto – attraverso disinvolti rapporti di do ut des con i Savoia. Sotto gli occhi di Bricherasio gli affari sporchi – traffici azionari, intrighi bancari ecc. – si moltiplicano e cresce il potere di Agnelli e dei suoi amici: finché nell’ottobre 1904, alla vigilia di un Consiglio di amministrazione in cui Bricherasio aveva annunciato di voler «vedere tutte le carte» e denunciare i pasticci che erano stati compiuti, il conte viene misteriosamente convocato a casa del duca Tommaso di Savoia-Genova (cugino del re) dove, secondo la versione ufficiale, si uccide con un colpo di pistola in testa. 
Nessuna autopsia, nessuna inchiesta, nessuna spiegazione. Caprilli, l’unico tra amici e familiari che ne può vedere il corpo prima del funerale, riferisce che il viso e le tempie del conte sono intatti. La sorella del conte, inquisita da misteriosi «alti funzionari», affida a Caprilli le carte del fratello morto, perché le custodisca: un cattivo viatico, perché tre anni dopo anche il celebre cavaliere muore senza testimoni, il cranio sfondato da una assai improbabile caduta da cavallo, di notte, in una strada innevata di Torino. E proprio alla vigilia, guarda caso, delle sue annunciate dimissioni dall’esercito che lo avrebbero liberato dai vincoli di fedeltà  e gli avrebbero permesso di rivelare quel che aveva appreso sulla morte dell’amico, sugli imbrogli della Fiat (nel frattempo passata interamente nelle mani di Agnelli), sul ruolo dei Savoia in tutto ciò. Anche per Caprilli niente autopsie, niente inchieste, nessuna spiegazione: solo una frettolosa sepoltura. 
La verità ? Non si saprà  mai: i sanguinosi misteri d’Italia non sono iniziati con Piazza Fontana ma molto prima. Per Giovanni Agnelli, i cui maneggi erano intanto diventati troppo palesi, si aprirà  poi anche un processo: tirato per le lunghe, si concluderà  con l’assoluzione dopo che la guerra di Libia (1911-12) sarà  stata portata a termine vittoriosamente, «vendicando» Adua. Senza cavalleria ma con un largo uso dei nuovi camion prodotti dalla Fiat.


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