Ultimatum alla maggioranza: la deriva mette a rischio il governo

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ROMA — Ha visto diventare sempre più concreto il rischio che l’atto decisivo di questa stagione politica, la nuova legge elettorale, si spegnesse nel nulla, con riflessi fatali sul governo. Ha visto una rincorsa di forzature, trucchi, diktat, sospetti incrociati, tatticismi, riposizionamenti, minacce di urne anticipate, e ha deciso d’intervenire mettendo in mora i partiti. Tutti.
Così, ha necessariamente il marchio perentorio dell’ultimatum il messaggio con il quale Giorgio Napolitano si è rivolto ieri ai leader della maggioranza (ma non solo a loro) per richiamarli alle proprie responsabilità  davanti al Paese. E davanti a lui stesso. Una ventina di giorni fa, infatti, il presidente aveva sollecitato per lettera uno «sforzo» generale in grado di darci un sistema di voto decente («che scongiurasse il ripetersi di guasti largamente riconosciuti e che rispondesse ad aspirazioni legittime dei cittadini») e il tempo è passato senza frutti. 
Certo: lo avevano rassicurato annunciandogli «come imminente» un’intesa tra le forze della maggioranza «e aperta agli altri». Ma la deriva presa dal confronto si è rivelata tale da far temere il peggio. Tanto che il lavoro riservato degli sherpa, invece di produrre un testo-base largamente condiviso (un contenitore con alcune opzioni aperte, da definire poi nel confronto parlamentare), è sfociato in posizioni «sfuggenti e polemiche». Alimentate da un euforico e distruttivo stop and go di provocazioni dei capipartito. Insomma: uno stallo che ha riportato tutto in alto mare. Con il concreto pericolo che, anziché puntare alla più ampia convergenza, qualcuno scelga di procedere a colpi di maggioranza.
Eppure era chiara e percorribile, la via maestra indicata dal capo dello Stato. L’unica, spiega chi ha vissuto da vicino le frustrazioni della sua logorante moral suasion, «per evitare nuovi passi in avanti verso la rottura e compierne piuttosto qualcuno di importante verso la ricomposizione». 
Non si indicano imputati, adesso, al Quirinale. Le colpe cioè sono più o meno equamente ripartite, tra quanti avrebbero dovuto garantire che l’impegno assunto non sarebbe stato disatteso. Si recrimina però con forza sul fatto che sia stata usata strumentalmente — come mezzo di pressione — l’ipotesi di una crisi pilotata con voto anticipato, «indicando addirittura il giorno dello scioglimento delle Camere e quello del voto». Un gioco che il capo dello Stato intende fermare per due ragioni: 1) perché la prospettiva di elezioni in autunno confermerebbe l’idea di una debolezza congenita del nostro sistema e riaprirebbe la questione della governabilità , esponendo il Paese a altri attacchi speculativi; 2) perché, se non si smentisce prestissimo e con i fatti quello scenario, rischieremmo di mandare in Europa a perorare la causa della moneta unica (e la causa dell’Italia) un premier già  azzoppato e per ciò stesso assai poco credibile.
Ecco come va letto il passaggio del messaggio di ieri in cui Napolitano sollecita «massima cautela e responsabilità » in rapporto a quel potere «di consultazione e decisione» che — rivendica giustamente — spetta a lui e a lui solo. È un deterrente per far capire che, nel caso la sfida tra Pdl e Pd sfociasse in una crisi, il Quirinale esperirà  qualsiasi tentativo per non congedare le Camere prima della scadenza naturale della legislatura. 
Ora, si sa che esiste la formula (non citata in Costituzione, com’è ovvio) del cosiddetto autoscioglimento: scatta quando la maggioranza dei partiti si schiera per chiudere la legislatura e non offre alternative ai capi dello Stato. Ciò però vale in tempi normali, se mai ce ne sono stati, da noi. Ma oggi, con il bisogno di tregua che ha il Paese (e Monti), chi si prenderebbe la responsabilità  di sfasciare tutto?


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