Tutti gli altrove di Alighiero Boetti

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Nei quarantacinque anni trascorsi dalla sua creazione, nessuno ha ancora visto accesa la Lampada annuale realizzata da Alighiero Boetti per la sua prima mostra personale. Nemmeno l’artista. Composta di una semplice scatola di legno contenente una lampadina coperta da una lastra di vetro, la lampada è collegata a un timer programmato per farla accendere solo una volta l’anno, per appena undici secondi. Il meccanismo non solo ci pone in una condizione di misteriosa attesa, la stessa che si prova sotto i cieli dell’artico nella speranza di vedere un’aurora boreale, ma provoca una defunzionalizzazione parziale dell’oggetto, introducendo la categoria di tempo, un tema ricorrente nel percorso radicale dell’artista torinese, tra i più geniali esponenti dell’arte concettuale italiana.
Esercizi di esodo
Nel 1967, con questa e altre opere, Boetti proponeva una critica nemmeno troppo velata al minimalismo americano, ed in particolare all’uso disinvolto ed entusiasta di materiale elettrico nelle installazioni luminose di artisti quali Dan Flavin. Collocati nella prima grande sala di Game Plan, l’ampia retrospettiva dedicata a Boetti visitabile fino al primo ottobre presso il Museum of Modern Art di New York, dopo le tappe di Madrid e Londra, i primi esperimentiscultorei realizzati da questo artista sono fatti soprattutto con compensato, sughero, eternit, o alluminio: materiali inediti nel panorama dell’arte italiana dell’epoca, ancorata a concezioni prettamente classiche e certo non preparata alla tautologica essenzialità  di Rotolo di cartone ondulato (1966), o Mazzo di tubi (1966). È facile capire perchéil critico Germano Celant non abbia esitato a fare di Boetti uno dei nomi di punta del movimento Arte Povera, insieme ad artisti come Giulio Paolini, Pino Pascali e Michelangelo Pistoletto, interessati all’impiego di materie prime e materiali industriali, e alla realizzazione di installazioni che mettono in evidenza, più che l’oggetto, il processo creativo.
Il sodalizio tra Boetti e il movimento Arte Povera è brevissimo. Boetti mostra ben presto di essere più interessato a esprimere la propria giocosa voglia di sovversione attraverso il ricorso all’autobiografia, secondo il magistero di Duchamp. Come nel caso dell’artista francese, il proprio nome diventa così il materiale linguistico per numerosi lavori successivi, fino allo sdoppiamento, nel 1973, in Alighiero e Boetti, già  anticipato da Gemelli (1968), un fotomontaggio in cui l’artista appare per mano al suo doppio. Una delle prime opere che mostrano l’ansia di affrancamento da Arte Povera è certamente Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969. L’opera, esposta a New York insieme ai pezzi che componevano una fortunata quanto discussa mostra personale alla Galleria Speroni di Torino, è una rappresentazione del corpo dell’artista, una sagoma sdraiata fatta di palle di cemento a presa rapida, su cui è visibile l’impronta della mano dell’autore. Apparentemente, l’opera comunica il senso di una beata rilassatezza vacanziera, se non fosse per la paradossale indicazione temporale. 
Come ha suggerito Jason E. Smith in un interessante saggio sui rapporti tra Boetti e la storia italiana a cavallo degli anni ’60 e ’70, l’attitudine dell’artista verso la politica in quel periodo potrebbe essere descritta – per usare la felice espressione di Paolo Virno – come un esercizio di esodo, una diserzione dalle forme tradizionali di impegno. Colpisce, allora, che Smith non abbia notato che la data scelta da Boetti per il suo ritratto pietrificato corrisponda a quella della morte di Jan Palach, il giovane ceco divenuto simbolo della protesta giovanile dopo essersi dato fuoco di fronte al Museo Nazionale di Praga. Con il suo autoritratto, Boetti sembra insomma denunciare anche il bisogno di azione, di uscita dallo stato di vacanza dell’arte e della società  italiana, mentre si preparava l’autunno caldo del ’69.
Il massimo della bellezza
A dimostrare come il ’69 rappresenti per Boetti un anno di svolta artistica, ma anche un momento di particolare riflessione sulla realtà  geo-politica, la mostra curata da Lynne Cooke, Mark Godfrey e Christian Rattemeyer dà  particolare risalto a Territori occupati (1969), un grande ricamo a punto croce raffigurante la mappa di Israele e dei Territori occupati dopo la Guerra dei sei giorni. Si tratta della prima mappa e del primo lavoro ricamato nell’opera di Boetti, che anticipa però tecniche e motivi caratteristici dei decenni successivi: le mappe-arazzo multicolori realizzate da ricamatrici afgane che occupano gran parte dell’esposizione. La serie delle Mappe ha origine da un’opera realizzata sempre nel 1969, Planisfero politico: una carta geografica su cui l’artista ha marcato i confini nazionali di ciascun paese con i colori e i motivi delle bandiere nazionali. «Il lavoro della Mappa ricamata – ha affermato Boetti in un’intervista – è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che: il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io».
Alterità  radicale
L’intrinseca bellezza delle opere di Boetti, l’opulenza divertita dei colori e la tendenza a realizzare numerosi multipli suscitano dapprincipio qualche commento sdegnato da parte della critica italiana. Viste oggi nell’atrio principale del MoMA, insieme ad alcuni dei cinquanta tappeti kilim della serie Alternando da uno a cento e viceversa (1993), realizzati in collaborazione con gli studenti di altrettante scuole francesi, le Mappe appaiono invece come una straordinaria opera corale, che mostra l’evolversi della geografia politica in anni decisivi per la storia mondiale e al contempo racconta la storia tormentata dell’Afghanistan e della sua gente. Boetti inizia la produzione delle mappe e delle celebri tavole composte di combinazioni di lettere colorate di varie dimensioni dopo un primo viaggio a Kabul nel 1971, città  che continua a visitare almeno due volte l’anno, fino al 1979, quando l’invasione sovietica dell’Afghanistan rende impossibile l’ingresso nel paese. Nella capitale afghana l’artista apre anche un alberghetto di undici stanze, l’One Hotel concepito come un’opera vera e propria, documentata da fotografie, e oggi considerata uno dei primi esempi di arte relazionale.
Della strada dove un tempo sorgeva l’One Hotel, nemmeno internet restituisce immagini precise. Solo qualche foto di palazzine semi fatiscenti, sovraccariche d’insegne, modesti negozi di tessuti e tappeti, inghiottiti dal traffico di auto e pedoni. La Kabul di oggi è solo un fantasma della città  descritta da Boetti in alcune interviste. Nel catalogo di Game Plan, Mark Godfrey sostiene che l’Afghanistan non ha solo rappresentato per Boetti un luogo di alterità  radicale, un altrove da orientalizzare – secondo il senso attribuito a questo termine dallo studioso palestinese Edward Said – ma che l’artista si sia impegnato a realizzare opere in cui anche gli afgani potessero articolare la propria esperienza. Nei bordi degli arazzi, infatti, si trovano numerose frasi che le ricamatrici afgane, incaricate della realizzazione, hanno integrato all’opera, soprattutto quando erano esiliate per via dell’occupazione nel vicino Pakistan. 
Messaggi a più mani
Come molti degli esempi di arte postale esposti nella mostra newyorkese, buste inviate a indirizzi inesistenti e ritornate al mittente dopo tortuosi trascorsi, anche i tappeti e in generale l’opera complessiva di Boetti appare oggi come un complesso messaggio scritto a più mani, giunto a noi dopo innumerevoli viaggi. 
Quella di Boetti è un’arte del movimento: quello della mano della donna subalterna che rende percepibile con filo sottile i grandi cicli della Storia, quello della biro che traccia l’evolversi del nome e della grammatica dell’artista, ma soprattutto il movimento di un pensiero creativo straordinario, mai pago dei propri traguardi.


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