Troppi attori diversi su una stessa scena

by Editore | 10 Luglio 2012 8:44

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«La gente qui in Afghanistan è stufa della guerra, vorrebbe semplicemente vivere in pace. Il guaio è che ancora non abbiamo trovato il modo per farlo, e la strada è ancora lunga». Seduto nel suo ufficio a due passi dalla splendida moschea del venerdì di Herat, Rahman Salahi – ingegnere già  a capo della Shura (consiglio) dei professionisti della città  – si interroga sulle prospettive future del suo paese, una volta che le truppe internazionali verranno ritirate, nel 2014. Come lui, molti in Afghanistan già  rivolgono la mente ai prossimi anni. E si chiedono quali vie occorra percorrere per trovare un compromesso politico con i talebani e con gli altri movimenti antigovernativi. Perché quello che non sono riuscite a fare, con mezzi militari, le truppe Isaf-Nato, forse potrebbe riuscire a farlo, con mezzi politici, la società  afghana, senza interferenze esterne.
Le perplessità , comunque, non mancano. «I colloqui di pace finora non hanno portato alcun vero risultato – spiega Soraya Pakzad, fondatrice e direttrice dell’Afghan Women Association – Ci sono stati troppi canali aperti, troppi tentativi da parte di attori diversi: gli Stati Uniti, la Germania, l’Arabia saudita su richiesta di Karzai, anche le Nazioni Unite. E nessuna condivisione di quale fosse l’obiettivo finale». Una pluralità  di orientamenti che avrebbe compromesso l’efficacia dei colloqui. «Si svolge tutto in modo opaco, senza renderne conto alla popolazione. Alla gente viene impedito di sapere quali siano i termini del negoziato, cosa si vuole concedere e cosa no». Qualche tipo di compromesso, infatti – sostengono molti in Afghanistan -, ci deve essere. Ma non a tutti i costi. E soprattutto non al costo di sacrificare i pochi diritti formalmente acquisiti fin qui: «Il rischio – prosegue Soraya Pakzad – è che il governo sia troppo debole per un compromesso degno di questo nome, e che l’accordo si basi non su concessioni reciproche, ma solo sulla nostra debolezza. Il fatto che le donne non siano incluse, se non simbolicamente, nella fase negoziale, ci deve far riflettere».
Per ora, l’ipotesi di un accordo con i movimenti antigovernativi rimane lontana, ricorda Aziza Khairandish, responsabile del Civil Society and Human Rights Network per la provincia di Herat e per le altre province occidentali del paese: «i talebani per ora sono in posizione di forza, non sembrano disposti a negoziare. Perché dovrebbero farlo? Decideranno di sedersi intorno a un tavolo negoziale soltanto quando saranno stati indeboliti». Nonostante la decennale presenza delle truppe straniere, i talebani godono tuttora di buona salute (pur con forti dissidi interni, vedi l’articolo qui sotto, ndr). Per Aziza Khairandish è facile spiegarne le ragioni: «L’errore principale l’ha compiuto la comunità  internazionale, quando ha voluto attribuire al Pakistan il ruolo di alleato nella guerra al terrorismo. Con il ritrovamento di Bin Laden in Pakistan ci si è ricreduti, ma era troppo tardi». 
E proprio alla possibile crescita dell’interferenza dei paesi vicini, Iran e Pakistan in testa, guardano con preoccupazione gli afghani, per il dopo 2014. «I nostri problemi di sicurezza dipendono dall’esterno – sostiene con enfasi Rafiq Sharir, notabile della città , già  parlamentare – senza l’aiuto dei servizi segreti pakistani e della rete di Al Qaeda, i talebani afghani non riuscirebbero a tenere sotto controllo un solo distretto». Per Rafiq Sharir rimane comunque vero che nessuno possa garantire che le forze di sicurezza afghane siano in grado di tenere testa da sole ai movimenti ribelli, soprattutto se aiutati da potenze straniere.
Non ne è certo neanche Ghulam Shah Adel, il giovane preside della facoltà  di legge e scienze politiche dell’Università  di Herat, che riconosce un aspetto positivo nel disimpegno delle forze internazionali: «Il processo di transizione costringerà  i nostri politici a occuparsi del paese, piuttosto che a pensare al giudizio e al sostegno della comunità  internazionale».
Molto meno ottimista, sulla tenuta delle forze di sicurezza afghane, è invece Rahman Salahi: «Si è puntato molto alla quantità , piuttosto che alla qualità , e le conseguenze si vedranno presto. Inoltre – aggiunge – l’addestramento è cominciato troppo tardi: il 2014 è dietro l’angolo, siamo come uno scolaretto che si limita a studiare la notte prima degli esami». 
Nei prossimi anni, l’Afghanistan dovrà  affrontare molti esami. Tra questi, Salahi ne ricorda uno, poco considerato: il repentino ridimensionamento del numero delle forze di sicurezza, stabilito dai vertici della Nato per ragioni di compatibilità  finanziaria con quanto i donatori sono disposti a sborsare: attualmente sono 337 mila i membri delle forze afghane; saranno 352 mila in ottobre. Secondo quanto dichiarato dal ministro afghano della Difesa, Abdul Rahim Wardak, la Nato ha intenzione di ridurre a 228.500 gli effettivi già  nel 2015. «Dove andranno a finire i licenziati? Se non troveranno un lavoro alternativo, c’è il rischio di addestrare oggi i nostri nemici di domani». Per questo, Salahi consiglia un cambio di strategia da parte della comunità  internazionale. Che punti sulla rinascita economica del paese. 
Una necessità  sentita anche dal governatore della provincia di Herat, Daoud Saba, che incontriamo nel suo studio: «Le cause del conflitto sono molteplici – dice – ma una delle principali è la mancanza di prospettive, di sviluppo economico, l’incapacità  dello Stato di soddisfare i bisogni della gente. Su questo punto, dobbiamo fare molto di più, facendo rinascere il sistema economico dell’Afghanistan». 
La rinascita dell’Afghanistan figura da molto tempo nelle solenni dichiarazioni delle cancellerie occidentali. Nonostante i soldi spesi, i risultati rimangono deludenti, argomenta Abdul Qader Rahimi, a capo dell’Afghanistan Indipendent Human Rights Commission per l’area occidentale: «Si è puntato sulla soluzione militare. Come se di fronte a un’epidemia si facesse ricorso a medicine palliative, senza affrontarne la causa. Il paradosso è che ora molti vanno a ingrossare le fila dei talebani perché delusi di quanto realizzato dal governo afghano e dagli stranieri». Alla domanda sui risultati ottenuti dalla comunità  internazionale, Rahimi replica così: «ogni cittadino dei paesi occidentali, direttamente o meno, ha finanziato l’intervento in Afghanistan. Sarebbe ora di chiedere ai vostri leader politici quali fossero gli obiettivi iniziali, e se li hanno ottenuti».

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