THOMAS McGUANE

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Da quasi mezzo secolo Thomas Mc-Guane trascorre la sua vita in una fattoria nel Montana, a nord del parco nazionale di Yellowstone, nelle vesti ora di allevatore di mandrie, ora di scrittore sarcastico e pungente, ora d’eccelso pescatore. I critici lo definiscono un autore postwestern, perché i suoi romanzi, per lo più storie famigliari (L’uomo che aveva perso il nome, Il canto dell’erba)
sono ambientati in un West demitizzato, per niente cavalleresco, «un mondo», sostiene, «in via di rottamazione, nostalgico e autoreferenziale». Con il libro d’esordio, Sporting club, s’era divertito a fare a pezzi convenzioni e conformismi del ceto elevato americano da cui lui stesso, figlio di cattolici irlandesi, proviene (è nato nel 1939, in Michigan); negli anni Settanta è stato sceneggiatore ad Hollywood – ha firmato Missouri, di Arthur Penn -, poi giornalista ed ex campione di rodeo. Con Il grande silenzio,
uscito per l’editore Dalai (trad. di Francesco Franconieri, pagg. 288, euro18), ha reso la pesca con la mosca un tema da saggistica autobiografica, come la Oates con la boxe o C.L.R. James col cricket: sono 33 scorci narrativi che raccontano il McGuane pescatore solitario e come la pesca, con i suoi silenzi e le attese, abbia modellato il suo modo di vedere il mondo.
Perché la pesca in America è come un rito di iniziazione?
«Mio nonno e mio padre pescavano, io l’ho insegnato a mia figlia. Conserviamo una certa nostalgia per gli spazi selvaggi, incontaminati, nel contatto con la natura e nella pesca troviamo una conferma delle nostre origini. Gli Stati Uniti sono molto vasti e la popolazione si concentra prevalentemente lungo i fiumi, percorrendoli si potrebbe raccontare la storia della nazione».
Lei che tipo di pescatore è?
«Esperto. La principale rivista di pesca degli Stati Uniti mi nominò tempo fa pescatore con la lenza dell’anno. Da ragazzo facevo la guida, portavo la gente a pescare. Di solito sono mentalmente dispersivo ma nella pesca riesco quasi per magia a concentrarmi, tiro fuori la lenza, mi metto lì e provo una gran pace. Tutto il resto sfuma».
L’apogeo, scrive, è ributtare nell’acqua i pesci.
«L’atto del pescatore è in diretto contatto con la natura, e ci ricorda che noi apparteniamo alla terra e non viceversa. Con le sue azioni la nostra società  ha finora mostrato di volere tutta l’acqua del pianeta e di non aver bisogno di pesce, mentre noi dobbiamo restituire più di quanto prendiamo perché i pescatori sono i primi guardiani dei fondali. Per catturare un pesce cerco di entrare nel loro mondo, uso l’immaginazione, e ciò mi fa comprendere in modo più ampio la natura. Non è necessario ucciderli».
È vero che Richard Brautigan prima di suicidarsi le consegnò la canna da pesca?
«Si, e un’urna funeraria. Pur non essendo un gran pescatore, era ostinato, usciva tutti i giorni, e smettere significò che aveva perso l’amore per la vita. Aveva una personalità  fragile, per via d’una adolescenza difficile, con patrigni
spesso violenti. Mi raccontò che uno gli nascondeva la tessera della biblioteca perché non amava che la casa si riempisse di libri. Già  da ragazzo scriveva, per lo più racconti, e un giorno la madre li portò ai suoi professori per avere un giudizio. Le dissero di internarlo in una clinica psichiatrica, aveva quindici anni: altro che stroncature o brutte recensioni!».
Sui manuali di letteratura la sua qualifica è “scrittore del West”.
«Una etichetta appiccicata perché vi ho passato la maggior parte della mia vita. Tre aspetti mi affascinano più d’ogni cosa: l’assurdità  della vita, la sua incongruità ; il dovere dell’artista di eliminare la crudeltà , per riprendere Cechov; e le conseguenze involontarie, spesso comiche dell’ipocrisia ».
L’ironia? «È la scintilla della prosa. Ciò che dà  una scarica elettrica alla mia narrativa è, credo, lo straniamento della comicità , metterla nel racconto ma in maniera un po’ sghemba, dove non te l’aspetti».
Come mai decise di vivere in un ranch?
«Accadde per caso. Mi fidanzai con una ragazza il cui padre era proprietario di un ranch, ogni tanto passavo del tempo con loro. Mi piacque subito – i cavalli, le mucche, i rodei; e così anche la ritualità  che scandisce la vita nella fattoria, seguire il ritmo delle stagioni».
Nei suoi romanzi descrive dettagliatamente il lavoro nel ranch. Mandriano e scrittore convivono?
«So far partorire una mucca, sì. L’autore a tempo pieno invece non l’ho mai saputo fare: mi capitava di
scrivere per un paio d’ore e poi restavo davanti alla pagina fino a sera. Ho imparato a dividere in compartimenti la giornata in modo da scrivere un po’, uscire a sellare i cavalli o fare qualche altra commissione, tornare in casa e riprendere la penna».
Il vecchio West è un mondo che sta per morire?
«Il declino riguarda l’allevamento a conduzione famigliare, soppiantato da una agricoltura più industriale. Il Montana somiglia oggi ad altri Stati americani: soltanto il 3% degli abitanti vive e lavora in una fattoria, tutti gli altri sono fattorini che consegnano le pizze, segretarie, dottori, ecc. La mitologia del West, con le sue storie di cowboy, indiani e ranch è ormai completamente datata».


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