Singapore, l’isola senza crisi dei pionieri del capitalismo

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SINGAPORE – Il culto degli antenati è forse il più antico tra quelli esportati dai primi commercianti cinesi in Asia. Eppure mai come di questi tempi è affidato ai “grandi vecchi”, ai fondatori delle dinastie che costruirono Singapore, la sopravvivenza di uno degli angoli dell’Asia dove la crisi sembra passare come una lontana turbolenza, giunta fin qui indebolita e carica di una potenziale pioggia di soldi in ogni moneta del globo. Mentre la finanza internazionale cerca lidi sicuri dove far approdare gli investimenti, Singapore si presenta infatti con il suo profilo “business friendly”: gli uomini d’affari importano senza dazi e possono investire senza limiti, su 120 grandi banche commerciali 114 sono interamente o parzialmente a capitale straniero, e non devi spiegare a nessuno da dove vengono i soldi e che cosa ci farai coi profitti.
I figli e i nipoti dei Padri fondatori non hanno dovuto inventare niente. Come i membri delle dinastie finanziarie e politiche che hanno governato dall’indipendenza (ottenuta nel 1965 dalla Malesia), solo una ristretta cerchia
di persone conosce il reale giro d’affari delle imprese e delle banche dell’isola. Uno Stato-impresa guidato da manager e tecnocrati giunti alla terza e quarta generazione, eredi dei primi e spesso illetterati emigranti fuggiti dalla miseria della madrepatria cinese, o dalle guerre, o dalle carestie e rivoluzioni. Il quasi novantenne Lee Kuan Yew è il più celebre e venerato tra i Patriarchi di questa Costantinopoli capitalista d’Estremo Oriente, la prima delle Tigri dell’Asia, capace di sfruttare i suoi striminziti 750 chilometri quadrati per tirarci fuori uno dei più alti redditi pro capite del mondo, 33mila euro, tre volte quello dell’Italia, e con una moneta che negli ultimi anni ha guadagnato fino al 3 per cento contro la valuta Usa. «Dagli ostacoli, un’opportunità » era il motto di Lee e degli altri imprenditori che assieme a lui misero in piedi il miracolo.
Oggi che i suoi vecchi compagni e pionieri del capitalismo assoluto sono morti o hanno abbandonato del tutto la scena, Lee Kuan continua a sovrintendere le sorti della sua “creatura” attraverso il figlio maggiore, Lee Hsien Loong, che gli ha affidato
un ministero d’onore da consulente a vita. Ma anche i rampolli degli altri padri fondatori delle prime grandi banche e imprese nazionali hanno un posto speciale
nella gerarchia che sovrintende le regole rigide e ultradisciplinate dello Stato. Come l’attuale presidente, Tony Tan, nipote del banchiere numero uno, Tan
Chin Tuan, oggi defunto, che a 91 anni donò 1000 dollari a tutti i coetanei rimasti — come lui — ancora lucidi e attivi. Alle visite mediche prescritte dalla sua fondazione,
si presentarono in 1200. Il dominio delle grandi famiglie non si estende alle sole istituzioni. Il vecchio Ng Ten Fong è morto lasciando ai figli un impero
da 9 miliardi di dollari, corrispondente secondo
Forbes
a quasi un quinto dell’intero patrimonio delle 40 più ricche famiglie dell’isola. Ma le statistiche che nel 2000 videro balzare l’isola Stato al quinto posto tra i redditi pro capite del mondo, davanti a Usa, Canada e Inghilterra, registrano anche un divario enorme tra ricchi e più poveri. Secondo i parametri del cosiddetto Coefficente Gini che misura l’ineguaglianza, Singapore è seconda solo a Hong Kong.
Nonostante le sacche di povertà  sempre più evidenti in periferia, nonostante il malessere espresso con il primo voto in leggero declino per il “Partito d’azione popolare” al potere da mezzo secolo, qui l’idea di una qualsiasi rivoluzione del sistema creato dai fondatori appare come pura utopia. Nessuno dei cittadini e dei milioni di immigrati saprebbe come creare una società  più funzionante di quella che adesso è in cima alla lista dei Paesi meno corrotti del mondo. Poco importa se i più deboli vengono schiacciati da un sistema che impone sistemi di controllo elettronici perfino nelle cabine degli ascensori.
Anche per chi vive di debiti, Singapore resta ancora un porto
di speranza al quale attraccano milioni di ricchi e di poveri. Di certo gli immigrati dalle Filippine, dall’Indonesia, dalle regioni più povere della Cina, non ottengono la cittadinanza immediata come è accaduto a uno dei rari esuli del capitalismo americano, il co-fondatore di Facebook Eduardo Saverin, oggi residente di Singapore dopo aver rinunciato — pare per questioni di tasse — alla cittadinanza Usa. Ma dai 4,4 milioni nel 2006, questo isolotto dai grattacieli svettanti è balzato a 5,2 milioni nel 2011, con oltre un milione e mezzo di immigrati dotati di visti temporanei e scarsi diritti, se non quello di lavorare a stipendi che sono meno della metà  di quelli locali, 500 euro contro 1100.
Prendere o lasciare. Su di una superficie appena 5 volte più grande del Linchenstein e 100 volte più abitata, questa isola basata sulla meritocrazia combatte la sua battaglia di sopravvivenza prima che possa giungere la bufera. Sopravvivere vuol dire anche passare sopra ai principi della finanza etica. Non a caso è uno dei pochi Paesi dove puoi vendere regolarmente un rene.


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