by Editore | 17 Luglio 2012 12:36
Il racconto si dipanava, digressivo e articolato come quelli di chi ha tanto da raccontare e sente di avere poco tempo per farlo. C’erano i ricercatori e i tecnici dell’Istituto, i microfoni per registrare, un paio di amici venuti a sentire. La registrazione era destinata ad aggiungersi all’incredibile patrimonio di voci e ai circa 500.000 documenti che l’Istituto ha accumulato e reso disponibile dal tempo della sua fondazione negli anni ’20 come Discoteca di Stato.
Tutto questo però è come se non fosse mai avvenuto. Infatti quella stessa mattina, nell’ambito della cosiddetta spending review (vuol dire, banalmente, «esame della spesa» ma in inglese fa tutt’altro effetto) era stata annunciata la soppressione dell’Istituto, senza che nessuno ne fosse stato informato o consultato, senza nessuna verifica della sua utilità e funzionamento, e senza darne nessuna motivazione.
In un comunicato dei lavoratori dell’Istituto ci si chiede come mai si scelga di sopprimere «un Istituto storico, unico nel nostro paese, che non ha auto blu, non effettua alcuno spreco di denaro pubblico, con un budget ridotto a livelli di sussistenza», e che per di più è titolare del diritto di deposito legale di tutte le pubblicazioni sonore e audiovisive (come dire, l’equivalente in questo campo della Biblioteca Nazionale).
La politica del «governo tecnico» nei confronti della cultura – scuola, università , istituti di ricerca (come l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) – mi ha convinto di una cosa: un tecnico non è necessariamente una persona colta. Un tecnico è in grado di eseguire una serie di operazioni specifiche in un settore ben definito, ma non è tenuto a capire niente di quello che si muove al di fuori del suo territorio e tanto meno ad avere immaginazione e visione. E siccome l’unico settore che conta e l’unico in cui dichiarino di avere competenza è quello dell’economia di mercato e finanziaria, ecco che si avvera il motto attribuito a Tremonti: con la cultura non si mangia. Che volete che ne importi a Moody’s o ai mitici «mercati» del nostro più grande patrimonio sonoro e audiovisivo, della nostra memoria storica in immagini e suoni?
Il modo frettoloso e irrituale in cui è stata presa e annunciata la decisione di sopprimere una realtà cruciale per la nostra identità storica e culturale dà l’idea di una straordinaria superficialità . Ma d’altra parte, il disprezzo per la cultura e per la ricerca, la convinzione della loro irrilevanza, si armonizzano bene con una prospettiva di declassamento del nostro paese ben più pesante di quello di Moody’s: un paese di seconda categoria, senza passato e senza futuro. Ma con licenziamenti facili e novanta cacciabombadieri nuovi fiammanti in più.
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