SHAKESPEARE IN OPERA

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  «Il leon rugge bramoso, – va de’ lupi urlando il branco; – dopo un giorno faticoso, – il villano russa stanco. – Il tizzone ormai rosseggia, – e, se mai chi giace in duolo – strider oda coccoveggia, – pensa al funebre lenzuolo». Come piaceva ai più piccini quella coccoveggia (civetta) che faceva pensare a una Sindone (shroud), nella versione indimenticabile di Giulia Celenza con introduzione di Mario Praz, novant’anni fa. Su quel Sogno d’una notte d’estate, la mia data d’acquisto è segnata 1944. E ora compare all’Opera di Roma la magnifica versione operistica di Benjamin Britten, diretta da James Conlon, solo recentemente ascoltato nella prelibata
Sirenetta di Zemlinsky con la fantastica Chicago Symphony Orchestra, al fresco, nella sede estiva del Ravinia Festival. Insomma, quante intermittenze di memorie, fra successive tendenze e svariati stili d’arte e di vita.
Per questa fantasmagoria romana, l’eccellente regìa si deve a Paul Curran che si è giustamente attenuto alle meravigliose tavole di Fà¼ssli per il Midsummer Night’s Dream, appunto. Se ne trovavano ancora dagli antiquari, sciolte, dalla celeberrima edizione londinese del Boydell, fine Settecento. E di Fà¼ssli, come di George Romney e Benjamin West, anche incisioni dal MacbethN e dal Cymbeline
e dall’Amleto, che in tante pose di questo spettacolo appaiono portentosamente e precisamente eseguite dal bravissimo mimo Michael Batten. Per le movenze delle Fate notturne e boscherecce, parrebbero soprattutto utilizzate le Ninfe berlioziane di Fantin- Latour.
Lirismi, chimismi, pozioni, lozioni, misteri notturni e forestali, sonni e sogni, «sogno o son desto? », sordine, bandine, fanfarette, «senti un po’ ‘sta caciaretta» (diceva Lele d’Amico citando Bach al pianoforte), spiriti aerei con voci bianche e celestialità  diffusissima…
Si sparge una gran quantità  di petali, in queste serate all’Opera. Fra citazioni musicali innumerevoli, efficaci anche per chi non le ricollega. Gran delicatezze. Niente passioni. Né Leonore, né Amelie, né Norme o Lucie. Mai «Numi, pietà , del mio soffrir». Il protagonista Oberon è un controtenore, del resto. Ah, se lui e Tytania, re e regina delle Fate, avessero visto prima un bimbo indiano che sparge non petali ma petardi o peti… Ah, se avessimo visto quest’opera così indimenticabile a Londra, nei contesti giusti, e non qui tra i fantasmi delle Callas e Tebaldi e Stignani e Simionato, e magari “jokes” tipo «La donna è mobile, Mariano è Stabile»…
Insomma, un’opera assolutamente celibe, oltre che estremamente british, intimamente da college adulto e scapolo. Voci bianche verginali e perverse per le soddisfazioni minimali di Henry James e dei suoi adepti per tutto ciò che appare nubile, ambiguo,
malevolo. Celibi i fantasmi, equivoci i pargoli, in The Turn of the Screw, malefici e minacciosi perfino il clavicembalo e la celesta. E del resto, nella pittura di Sargent così affine a James e a Britten, non solo a Firenze e a Venezia ma nel ben più trafficato slargo romano in fondo alla Via Nazionale addirittura la facciata di Santa Caterina da Siena poteva proporre qualche tentativo di accesso a modesti misteri pedonali… in piena Magnanapoli…
Quante – innumerevoli – macchine e cerimonie celibi. Fra gli onnipresenti Peter GrimesM eMThe Turn of the ScrewMalla purtroppo lunghissima Morte a Venezia. Da un’operina minimale su testo di W. H. Auden, vista in un remoto teatrino off-off, a New York, fino alle operine liturgiche tipo Noye’s Fludde con un intero collegio di chierichetti inglesi nell’isola di San Giorgio, a Venezia. Con la voce recitante di Dio che impone la costruzione dell’arca a un Noè balordo che prende appunti osteggiato dai dispetti della signora Noè e di certe sue amiche. E una fanfaretta iniziale; e un carillon di campanacci finale; e un valzer di violoncelli per il Volo della Colomba in onore di Vittorio Cini. Ma anche il traghetto cimiteriale orientaleggiante di Curlew River, che finì per risultare lo spettacolo meglio riuscito a un recente festival di Aix-en-Provence. Mentre le operone celebrative si eseguono sempre meno; e Billy Budd richiede
ben due cori maschili, sicché si riuscì a vederlo una volta sola, con l’eccellente Simon Keenlyside che si muove e canta come un divo pop, mentre lo si perdette con Thomas Hampson giovane, e non ne rimane alcun dvd.
Il principe delle pagode resta, soprattutto a Milano, come soprannome di cui volentieri si adornava Nureyev.
Circa A Midsummer Night’s Dream, si ricorda sempre con piacere il filmone di Max Reinhardt col bravissimo James Cagney come artigiano ballerino, e il soave piccino Mickey Rooney quale Puck. E nelle recite scolastiche alla buona, chissà  come, si cantava «Io sono Chiomadoro, la regina delle Fate. – Spirito son dei boschi, la mia voce ascoltate». Nel Britten romano, invece, gli interpreti ateniesi sono in abiti borghesi, e dunque i vari inginocchiamenti da melodramma sfrenato si rivelano «effetti di straniamento » registico. Ma così il cocktail iniziale del cast appare un po’ troppo poveristico. Anche perché non si capisce ancora se una uniforme abbondantemente gallonata “significhi” portiere d’albergo che chiama i taxi, oppure gendarme tipico da dittatura.
Trionfa attualmente a Spoleto The Turn of the Screw, ambientato con regìa di Giorgio Ferrara nel-l’Isola dei Morti di Bà¶cklin. E quindi, oltre alle parecchie produzioni viste in giro per l’Europa, torna in mente l’eccelsa Raina Kabaivanska, indimenticabile “Governess” a Bologna. Ma si risale ancora più indietro, nei decenni, al fatiscente Scala Theater, già  sepolcrale negli anni Cinquanta, in Charlotte Street a Londra, quando Chaplin vi situò l’agonia terminale di Calvero, in Limelight.
Qui però aveva sede l’English Opera Group, con le sue moderate avanguardie britanniche. E una piccola platea di fans tipo film di Powell e Pressburger (Scarpette rosse), giacché il quindicenne David Hemmings primo protagonista era lì lì per cambiare la voce, per poi diventare un fior di bell’attore con Antonioni (Blow-up) e altri. Mentre anche per la vegliarda Edith Sitwell si annunciavano interpretazioni finali di Faà§ade, con un megafono brevettato per il Drago Fafner nella prima Bayreuth, e il suo gran becco plantageneto sotto un immenso turbante di serpi nere e dorate, come una Medusa manierista fatta coi cordoni da tende.
Peter Pears era ovunque. Sia alternandosi a Dame Edith nelle voragini di rime sofistiche («Ondine, Clementine, scene, obscene, pistol, Bristol…»), fra i cubismi danzanti di William Walton, sia nelle suggestioni torbide e cavillose del cameriere fantasma di Britten, insieme prepotente e morbide nel perseguitare il piccino che ama le campane al cimitero domenicale. Straziante: «Do
you like the bells? I do, I do, They’re not half finished yet», con David Hemmings fra le tombe. Riecco le lancinanti campane romane all’alba nel terz’atto della Tosca?
Il commovente pastorello dannunziano che nel Piacere guarda passare i viveurs dopo i balli sulla Nomentana?
Ma forse soltanto nei più scelti confessionali depravati dalla sublimazione del «quante volte? e con chi?» si assapora con verve
tanto inesauribile una dedizione così esclusiva ai «cattivi bambini », ai «pessimi maestri», alle «brutte cose», al «mai lasciarli soli con quello lì». E che zii, che zie, quanti sensi di colpa e di fallo, quanti palpiti di governanti e fremiti di precettori. Peter Pears e Jennifer Vyvyan rabbrividivano e sussultavano finemente e intensamente assidui come – in prosa – la povera Flora Robson appassita e illusa zitella in The Aspern Papers.
Altro successo inglese e celibe di Henry James.


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