by Editore | 31 Luglio 2012 10:39
La Siria è stata negli ultimi anni il paese che ha ospitato la maggioranza dei rifugiati iracheni, almeno un milione, in fuga dopo la caduta di Saddam Hussein. Ora, seguendo un drammatico gioco delle parti, coloro che non erano già rientrati o espatriati in Europa e negli Stati Uniti, rientrano in Iraq, preoccupati per i futuri sviluppi della crisi siriana. In direzione opposta va avanti l’esodo dei siriani verso l’Iraq.
Secondo i dati dell’Unhcr (L’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati), sono circa 9.000 i rifugiati arrivati in Iraq negli ultimi mesi, ma le Ong parlano di più di 15.000 tra giovani uomini e famiglie. L’Iraq non è considerato un porto sicuro dai siriani in fuga, e non hanno tutti i torti osservando la cronaca degli primi giorni di Ramadan, con più di 100 morti e circa 200 feriti in una serie di attacchi contemporanei a Baghdad e in altre città irachene.
A questo si aggiunga l’atteggiamento di ambigua prudenza mantenuto dal governo centrale iracheno rispetto alla crisi siriana e al futuro del regime di Bashar al-Assad; il premier iracheno Nouri Al-Maliki guida un debole governo con l’appoggio iraniano e il regime di Damasco è considerato un alleato. Un segno di questo atteggiamento prudente si è avuto la settimana scorsa, con la decisione del governo iracheno, poi ritirata, di chiudere le frontiere con la Siria ai non iracheni.
Per questi motivi quasi il 95% dei rifugiati siriani in Iraq sono kurdi, provenienti dalle città del nord-est della Siria (Khamishli, Hasaka, Afrim). Entrano in Iraq nei pressi del varco di Rabia che segna il confine tra Siria e Kurdistan Iracheno, ormai largamente autonomo dal governo di Baghdad, che accoglie i rifugiati perché vuole mostrarsi come la «casa di tutti i kurdi». Non a caso anche nei pochi giorni di chiusura degli altri valichi di frontiera, Rabia è rimasto aperto.
Tra i profughi kurdo-siriani ci sono famiglie in fuga dalle violenze e molti (quasi il 70%) giovani uomini che scappano per evitare di essere arruolati dall’esercito regolare siriano. Gli operatori di «Un ponte per…» li hanno incontrati in uno dei due campi profughi allestiti nei pressi della città di Dohok: sono quasi tutti ragazzi tra i 20 e i 30 anni, che raccontano del difficile cammino per raggiungere il Kurdistan iracheno, tra contrabbandieri, guardie di confine corrotte e lunghe camminate a piedi nella notte.
Dicono quanto sia sempre stato difficile appartenere alla minoranza kurda in Siria, e come la situazione sia peggiorata con l’inizio delle rivolte contro Assad. Chiedono un’autonomia che li tuteli, ma non pensano di stabilirsi nel Kurdistan iracheno: ma la Siria è casa loro, ed è lì che vogliono tornare.
Intanto, nonostante i disagi della vita nei campi profughi alcuni si sono registrati presso l’Unhcr e possono avere permesso di soggiorno e accesso all’istruzione e alla sanità garantite dal Governo regionale Kurdo. Per alcuni di questi giovani le autorità hanno invece predisposto un addestramento di tipo militare; secondo le dichiarazioni ufficiali del Governo regionale Kurdo lo scopo sarebbe di prepararli a garantire la sicurezza dei territori da loro abitati una volta rientrati in Siria. Un esperimento pericoloso che rischia di contribuire solo alla ulteriore etnicizzazione del conflitto siriano.
Migliaia di rifugiati vivono poi al di fuori dei campi; ospiti di amici e parenti, dispersi nelle varie città del nord iracheno. Donne e uomini che sfuggono per diffidenza al meccanismo della registrazione e dell’assistenza, spesso senza permesso di soggiorno, per questo ricattati e sfruttati soprattutto dal mercato del lavoro nero. Ultimi fra gli ultimi, è difficile dire quanti siano, difficile anche tracciarli in quell’area grigia d’illegalità che li rende molto simili ai nostri «immigrati clandestini».
L’organizzazione non governatova kurda-irachena Public Aid Organization (Pao), sin dall’inizio dell’emergenza porta avanti un lavoro di monitoraggio di coloro che non sono registrati come profughi, cercando di capire dove sono e in che condizioni vivono, offrendo orientamento e cercando di porsi come intermediario per trovargli un lavoro dignitoso.
«Un Ponte per…» e Pao stanno predisponendo insieme un programma di assistenza legale e sanitaria per questi rifugiati, per farli uscire dall’ombra e offrirgli condizioni di vita dignitose in attesa che possano tornare in Siria.
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