ROMA, LA CITTà€ È UN VIDEOGIOCO
Pulp Roma di Tommaso Pincio è un libro (ma l’autore lo definisce “un libercolo”) strano. (Lo pubblica Il Saggiatore, pagg. 140, euro 12). Di che cosa parla? Direi subito: questo è un libro autobiografico, la storia raccontata in modo non lineare di Tommaso Pincio, della sua istruzione, del suo modo di vivere, di leggere, andare al cinema e soprattutto di vedere quella multiforme città che chiamiamo Roma. “Da Caravaggio a Fellini e Pasolini, tutti coloro che sono giunti nella mia millenaria città cogliendone l’essenza più vera (che non è certo la Chiesa né lo sono i quattro avanzi rimasti delle vestigia imperiali) hanno finito per ritrarla come un luogo di sozzura e indolenza morale, un bordello a cielo aperto”.
Ma c’è, verrebbe da aggiungere, bordello e bordello. Pincio pone al passato remoto il film di Fellini divenuto proverbiale anche di un modo di essere (o di sognare di essere) La dolce vita e nota che un film lo si dovrebbe vedere quando esce: vederlo dopo, magari per banali ragioni anagrafiche, è irrimediabilmente un’altra cosa. Ne discende un corollario: che ognuno di passato ha il suo personale e
il resto non conta. Non potendosi dunque allineare sulle coordinate della Dolce vita, l’autore preferisce far sue quelle, ben più a lui congeniali, di Blade Runner: il futuro è una catastrofe, tra uomo e androide la linea si fa sempre più sottile. Il passato esiste solo come rovina. Ecco allora che Pincio disegna la sua Roma in una pulp fiction che vede la presa dei poteri da parte dei cinesi. Inevitabilmente i cinesi gestiscono un bordello e governano l’Excelsior, trasformato in condominio, dove si può ora dormire con cento euro. L’Excelsior è l’albergo che domina Via Veneto, la strada della Dolce vita, ma è anche il grande albergo dove ha deciso di togliersi la vita Kurt Cobain la rockstar a cui Pincio ha dedicato un libro.
Torniamo al racconto. Il protagonista fa un po’ tenerezza: per far colpo sul boss cinese dice d’essere un giornalista free lance. In realtà non combina nulla e si ritrova pieno di debiti di gioco tra il reale e il virtuale e “fidanzato” con una puttana cinese che è una macchina di piacere e di morte. Roma è ormai diventata il fantasma di se stessa: si direbbe che sia pronta per essere incendiata. Pincio legge dunque la sua città attraverso la proiezione dei suoi pensieri. Talvolta sono pensieri letterari, come quando immagina il misterioso commissario Acaba che occupa l’ufficio del gaddiano Ingravallo, a via Santo Stefano del Cacco, o ripercorre le fobie di Freud che non si decideva a raggiungere Roma.
Altre volte delineano una sorta di svagata filosofia che consiste nell’andare un po’ alla deriva seguendo l’impulso e le personali convenienze del momento. Fellini aveva visto Roma attraverso i malinconici baccanali della classe colta e ricca (La dolce vita)
e le abbuffate di quella popolare (Roma), Pasolini aveva scoperto la vitalità cialtrona dei ragazzi di vita, la loro tenerezza e la loro violenza. Pincio scopre soprattutto se stesso e questa solitudine lo avvicina idealmente, secondo me almeno, all’autarchico Nanni Moretti. Anche Moretti usa molto Roma, ma ne fa un supporto per le sue indagini che sempre vedono al centro lui e la sua complessa, splendida e nevrotica insieme, gioia (noia?) di vivere.
Quella di Pincio è però una Roma popolata di fantasmi, più che di persone o di folle, come accade in una città . Il “libercolo” accoglie anche fumetti. È un ibrido pieno di link. Che alla fine sia la traduzione cartacea di un videogioco?
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