Religiosi e sovrani in visita alla corte del sultano
Dopo la sconfitta crociata di Hattin, nel 1187, Gerusalemme era stata riconquistata dal Saladino. Da allora diverse spedizioni militari si erano succedute, senza tuttavia mai riprendere la Città Santa; al punto che ormai in molti erano convinti di dover cambiare strategia. In primo luogo quella militare: tra 1217 e 1221 si effettuò un’altra spedizione, che però non doveva attaccare la Terrasanta, ma impegnarsi piuttosto nell’assedio al porto egiziano di Damietta; i capi della crociata – tra cui il legato pontificio cardinale Pelagio – erano convinti che il sultano al-Malik al-Kà¢mil, della stessa famiglia del Saladino, colpito in quel porto che, con Alessandria, era la sua principale fonte di ricchezza, avrebbe reagito trattando con loro e cedendo Gerusalemme in cambio della pace e della sicurezza commerciale. Al-Kà¢mil propose in effetti un accordo con il quale cedeva Gerusalemme, preventivamente privata di difese per renderla inutilizzabile dal punto di vista militare, ai cristiani, in cambio della fine delle ostilità . Gli europei si divisero fra quanti avrebbero voluto accettare e quanto invece ritenevano il risultato inadeguato; prevalse quest’ultimo partito, il patto saltò e l’impresa militare fallì.
Durante questo conflitto ebbe luogo un fatto importante: Francesco d’Assisi si era imbarcato ad Ancona per recarsi in Egitto e Palestina; verso il settembre 1219, mentre i due schieramenti trattavano il possibile accordo, giunse a Damietta dove ottenne dal legato pontificio il permesso di poter passare nel campo saraceno insieme a un confratello per incontrare il sultano. Non vi sono fonti dirette, né cristiane né musulmane, a raccontare l’incontro – se l’incontro davvero ci fu. Ma certamente nell’immaginario europeo il momento ha marcato una cesura importante: in primo luogo in quanto i contemporanei, e in modo particolare l’agiografia francescana, se ne impossessò immediatamente, ma anche perché la storiografia ancora ne dibatte, così come ci dice l’ultimo libro di Chiara Frugoni: Francesco e le terre dei non cristiani (Edizioni Biblioteca Francescana 2012, pp. 206, euro 27).
Pochi anni più tardi, un altro grande personaggio del XIII secolo, Federico II, avrebbe pure incontrato il sultano, con il quale d’altro canto aveva già buoni rapporti diplomatici. Tanto che durante l’assedio di Damietta egli si era ben guardato dall’andare in aiuto ai crociati. Ma qualche anno più tardi, pressato dalle richieste di papa Gregorio IX, inquieto per le strategie federiciane riguardo al rapporto fra impero e corona di Sicilia e alle sue politiche ecclesiastiche e desideroso di spingere di spingerlo ad un passo falso, Federico dovette risolversi a partire.
Nel diffuso sentire del tempo, la crociata era dovere di ogni sovrano fedele alla Chiesa; inoltre, si diceva che Federico avesse più volte promesso al predecessore di Gregorio, Onorio III, l’organizzazione di una impresa militare. Poiché una spedizione pronta nell’autunno 1227 non poté avere inizio a causa di un’epidemia scoppiata fra le truppe, il pontefice scomunicò l’imperatore. Come è noto, la scomunica scioglieva i sudditi di un sovrano da qualunque obbligo di fedeltà nei suoi confronti: qualunque avversario politico di Federico in Germania, in Italia o in Sicilia, avrebbe ora potuto sollevarsi in armi per i propri interessi, proclamando di farlo nel nome della fede.
Ciò costrinse Federico a partire appena l’anno successivo, ma non senza aver preso alcune contromisure. Anzitutto, aveva saputo guadagnarsi degli interessi dinastici in Terrasanta sposando l’ereditiera della corona di Gerusalemme, Isabella-Iolanda di Brienne; si presentava quindi in Palestina come legittimo pretendente alla corona, e in quanto tale prevedeva di mettere ordine tra i feudatari e i comuni delle città costiere dalle quali ormai il regno era costituito. Coglieva poi l’occasione per rinsaldare i suoi rapporti di amicizia con il sultano. Difatti, con al-Malik al-Kà¢mil stipulò un trattato in base al quale Gerusalemme gli veniva di nuovo ceduta, ma priva di mura, e con l’esclusione dell’area della moschea di Omar (ritenuta dai cristiani il Tempio di Salomone), che era un luogo santo musulmano: esattamente l’accordo che i crociati avevano rifutato pochi anni prima. E proprio a Gerusalemme egli poté cingere solennemente, nel 1229, la corona del regno, nonostante l’opposizione del clero locale e di quasi tutti i feudatari.
Rispetto alla questione gerosolimitana, l’azione di Federico non deve essere sopravvalutata, dal momento che i suoi interessi politici a riguardo risultano ovvi. Nonostante questo, dal punto di vista simbolico l’accordo con il sultano resta un gesto importante, soprattutto se letto alla luce della travagliata storia di Gerusalemme: non solo in quei secoli, ma nelle epoche precedenti e, ben più tragicamente, in quelle a noi più vicine. Come si evince dalla narrazione della storia della città condotta minuziosamente da Simon Sebag Montefiore, Jerusalem. The Biography (Weidenfeld & Nicolson, London, pp. 638, £ 25), un libro già tradotto in francese ma non ancora in italiano.
L’accostamento di Federico II a Francesco è per molti versi impossibile: anche perché sull’azione del primo sappiamo abbastanza da poter dire che fu a carattere strategico, mentre di quella del secondo conosciamo quasi niente; sappiamo tuttavia che l’agiografia lo disse votato alla causa del martirio, maltrattato dai soldati saraceni, sottoposto all’ordalia del fuoco, e che niente di tutto questo regge alla verifica storica. Il dibattito storiografico oggi riguarda soprattutto le sue intenzioni: la sua visita nel campo avverso era dovuta alla volontà di sostenere lo spirito crociato o era invece l’inizio di un inedito spirito di missione? Chiara Frugoni sembra propendere per la seconda ipotesi, insistendo sulla predicazione evangelica di Francesco e sul suo invito a fare penitenza: un invito valido per i musulmani quanto per i cristiani.
In entrambi i modelli di comportamento, quello dell’imperatore e quello del santo, vediamo insomma la ricerca di un linguaggio differente rispetto alla consuetudine; non che il rapporto tra cristiani e i musulmani fosse stato fino a quel momento improntato alla sola lotta. Al contrario, scambi diplomatici e soprattutto commerciali erano la norma; ma il patto tra Federico II e al-Malik al-Kà¢mil era qualcosa di più per via della situazione complessiva e per la platealità con cui fu messo in atto. Così come la centralità della figura di Francesco nella storia della spiritualità cristiana è in grado di tenerci avvinti al dibattito su un momento del quale ben poco è dato sapere, ma che si carica di significati che oggi echeggiano più attuali che mai.
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