Quello sguardo fisso di un clown dell’orrore con i capelli rossi
WASHINGTON – Il suo esordio in pubblico, nella prima apparizione nel tribunale di Aurora appena tre giorni dopo il mattatoio nel cinema, ci mostra un uomo rinchiuso in una maschera indecifrabile e letargica, tra quella del tossico strafatto, del bambino stordito o dell’attore consumato che tenta di recitare il solo copione che potrebbe salvarlo dalla siringa letale: la parte dell’infermità mentale e della incapacità di intendere e di volere. Lo tradiscono soltanto, a tratti, gli occhi sbarrati e cattivi, che guizzano dietro le palpebre sonnacchiose.
Non esibisce la tracotanza razzista e ideologica di Anders Breivik, il “terminator” norvegese che sia era autoinvestito della missione di purificare l’Europa bianca dalle razze inferiori e dai partiti di sinistra che si erano secondo lui arresi alla bastardizzazione. Uno sterminatore che rifarebbe domani la stessa strage, se potesse. Ma neppure ostentava la sgangherata, allegra demenza poi rovesciata in contrizione tardiva dei due massacratori degli studenti e dei professori del Liceo di Columbine, Eric Harris e Dylan Klebold, che avevano scambiato la scuola e i compagni per un videogame sul quale scaricare i propri fallimenti. Lontana
era anche la gelida serietà dello studente coreano Seung-Hui Cho, che freddò trentadue persone nel Politecnico della Virginia, e che insano era davvero, come determinarono gli psichiatri diagnosticando la sua condizione di schizofrenia e di mutismo clinico.
Il pagliaccio dai capelli rossi, che in quella sua scarmigliata testa di capelli fiammanti riecciterà quella strana eppure diffusa fobia dei clown che la psichiatrica definisce “coulrofobia” e che dozzine di film dell’orrore sfruttano, sembrava e voleva sembrare un uomo che fosse stato svegliato all’improvviso nel mezzo del sonno più profondo e credesse, o volesse farci credere, di avere sognato. Fissava con gli occhi aperti il giudice che leggeva le procedure
preliminari alla sua incriminazione, come se non capisse di che cosa quell’uomo in toga nera stesse blaterando.
Passava dalla fissità attonita a una rapida, frenetica serie di battiti di ciglia, e poi a momenti di occhi chiusi, prima di riaprirli e fissarli verso il giudice, senza mai neppure degnare di uno sguardo la signora seduta accanto a lui, l’avvocato di ufficio. Soltanto quella fiamma di pelo rosso arancio sopra i segni della ricrescita del nero naturale dei capelli lanciavano al mondo il messaggio di un uomo che aveva non soltanto falciato 70 spettatori in un cinema, ma trasformato il proprio appartamento in una trappola micidiale, armata persino di napalm, per dare fuoco all’intero condominio. Ma prima, forse
una settimana, al massimo due a giudicare dalle radici nere dei capelli, aveva trovato il tempo e la vanità di andare dal parrucchieri per farsi la tinta.
Nella tracotanza ariana del vichingo criminale, Breivik, nella debole banalità di personaggi come Jeffrey Dahmer, giovanotto qualsiasi che non soltanto uccideva ragazzi, ma li frizzava per mangiarseli poi con comodo nel suo odio, nella sinistra ombra del genio della matematica Ted Kaczynsky, che voleva punire con i suoi pacchi postali esplosivi l’ingordigia del capitalismo, c’erano almeno indizi pur vaghi, piccoli squarci dai quali intravedere l’uomo dietro la maschera. Come è facile leggere nei fanatici fondamentalisti della jihad criminale portati alla
sbarra che gridano “Morte all’America”, “Morte a Israele” e “Allahu Akbar” il sentiero della loro vocazione di morte nel nome di un Dio che credono di onorare e di servire, dilaniando
innocenti
La maschera di Holmes è invece molto più inquietante della solita banalità del Male o della sua proclamazione. Se il suo piccolo show nell’aula di Aurora è autentico, e non è stato soltanto una recita fatta da un giovanotto che tutti descrivono come intelligente, dotato, diligente fino alle soglie del dottorato, la sua è la incredulità del male commesso, come se neppure lui potesse davvero credere di avere fatto quello che ha fatto. Dave Cullen del
New York Times,
l’autore del più completo studio sulla strage di Columbine, invita a non leggere troppo, nell’atteggiamento di questi presunti killer, presunti fino alla sentenza come vuole la legge, nei loro tic e nel loro manierismi. Ma una simile, apparente storditezza nell’album fotografico ormai ricchissimo degli stragisti e dei serial killer non si era ancora vista.
Holmes era sicuramente sotto l’effetto di tranquillanti prescritti dal medico del carcere e questo spiega quell’aria letargica, rimbambita che esibiva. Anche senza l’azione dei medicinali, i postumi di uno stress che in lui era durato a lungo, per le settimane, forse i mesi, necessari per organizzare l’arsenale e per trasformare l’appartamentino in una trappola di esplosivi e gelatina di benzina, il napalm, un crescendo psicopatolgico culminato nella sparatoria
nella notte di venerdì, lo avrebbe comunque spossato. Lo avrebbe trasformato in quella creatura cachettica, tragicamente comica, nella tuta bordeaux dei carcerati nella prigione della contea, che sbatteva gli occhi come a chiedersi dove fosse finito. Un uomo nella cella della propria sbigottita solitudine, come quella fisica nella quale è stato rinchiuso dalla polizia per evitargli la rapida e definitiva giustizia degli altri carcerati. Neppure l’avvocato che gli sedeva a fianco, nei sei minuti della breve udienza, lo ha mai guardato in faccia, come se lui non fosse più un lui, ma un nessuno, uno spettro di uomo. Il personaggio di un filmetto dell’orrore, Jimmy il Pagliaccio che uccide.
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