by Editore | 2 Luglio 2012 4:42
new york – È l’Italia la grande malata dell’euro. Non basta un vertice europeo per curare il suo problema numero uno: un prolungato crollo di competitività verso la Germania. L’allarme viene dal Washington Post, e accentua lo scetticismo americano sugli esiti del summit di Bruxelles. Scudo anti-spread, aiuti alle banche spagnole non possono sanare gli squilibri strutturali. Il più grave è il “male italiano”. A questo tema il quotidiano della capitale Usa dedica l’intera sezione economica con un titolo-shock: “It’s the culture, stupido”. Rievoca il celebre slogan della campagna elettorale di Bill Clinton contro George Bush padre, la frase “It’s the economy, stupid” che invitava a concentrarsi sull’unico tema davvero decisivo.
In questo caso, il «modello culturale» italiano per il Washington Post è segnato dall’evasione fiscale record, la mancanza di spirito civico, il nepotismo che esclude la meritocrazia. Un insieme di “disvalori” che a loro volto sono alimentati dall’inefficienza dello Stato, la corruzione, il collasso della giustizia. Con quali conseguenze sulla produttività complessiva del paese? «L’Italia soffre per una crisi di produttività endemica – scrive il Washington Post – , il problema dura da così tanto tempo e ha effetti così profondi sull’economia, che mette in pericolo l’intero tessuto della vita nazionale». Le inefficienze di sistema sono esemplificate da un paradosso: gli italiani che hanno un posto, in media lavorano più di tutti i loro concorrenti: 1.744 ore all’anno contro le 1.705 degli americani, 1.480 in Francia, 1.411 in Germania. Ma la produttività reale di questo lavoro è rovesciata. Campioni mondiali di produttività sono gli Stati Uniti con 60,9 dollari all’ora, seguono Germania e Francia sopra quota 55, poi la Svezia a 52 e l’Inghilterra a 47,8. L’Italia è in fondo alla classifica, con 45 dollari di Pil per ogni ora lavorata. «E da anni l’Italia continua a perdere terreno. Le zone improduttive della sua economia si espandono, prevalgono sulle parti migliori». Questo spiega il dato più allarmante: dall’introduzione della moneta unica ad oggi, abbiamo perso il 30% di produttività nei confronti della Germania.
Visto dagli Stati Uniti, questo è il vero punto debole di tutta la costruzione europea. L’attenzione di recente si è concentrata su altri aspetti: sfiducia dei mercati, aumento degli spread. Le soluzioni adottate venerdì a Bruxelles hanno dato una risposta ad alcuni di quei problemi, con la promessa di interventi del fondo salva-Stati per acquistare bond spagnoli o italiani e mettere un tetto allo spread; nonché con l’impegno a ricapitalizzare direttamente le banche spagnole senza gravare sul debito pubblico di Madrid. Gli stessi osservatori americani sono rimasti positivamente sorpresi dal “decisionismo” del summit e ne hanno attribuito il merito in gran parte a Mario Monti. Ora però dagli Stati Uniti l’attenzione torna a concentrarsi sui “fondamentali”. I saldi finanziari sono solo la spia e la risultante finale di problemi strutturali più profondi come l’inefficienza dello Stato. Se non si risolvono le cause, curare gli effetti e cioè i soli saldi finanziari non basta. Per gli americani «la madre di tutti gli squilibri» è proprio il divario di competitività illustrato dal Washington Post. Come possono convivere usando la stessa moneta, due nazioni tra le quali si scava un fosso così profondo di produttività ? Se l’Italia ha perso la possibilità di svalutare, la Germania continuerà a sottrarci quote di mercati esteri, quindi la nostra industria e la nostra occupazione sono destinate a rattrappirsi ulteriormente. Con un ulteriore effetto perverso: crescerà ancora il peso dei settori improduttivi, la palla al piede dell’economia italiana. Gli Stati Uniti, avendo mercato unico e moneta unica da oltre due secoli, nonché un solo mercato del lavoro e un sistema politico anch’esso unificato, conoscono le dure regole dell’integrazione. Se la Louisiana non regge la crescita della produttività della California, non può svalutare un “dollaro della Louisiana”. Perciò l’aggiustamento avviene in due forme: o la manodopera emigra in massa verso la California, oppure i salari crollano in Louisiana e la produttività sale, fino ad attirare investimenti che fanno risalire la competitività e il Pil locale. Più spesso accade un mix di queste due cose. Naturalmente c’è l’unione bancaria (una banca locale non teme un assalto agli sportelli: è assicurata da Washington) e c’è la solidarietà fiscale che trasferisce un minimo di aiuti dal centro alle periferie povere. Nulla funzionerebbe però senza una flessibilità interna che consente alla Louisiana di non essere eternamente una palla al piede della California. Sono questi meccanismi che appaiono inesistenti in Europa, e rendono meno assurda la resistenza di Angela Merkel, quando gli americani si calano nei suoi panni. L’assenza di questi ingredienti di base, resta agli occhi degli americani una debolezza che inficia la costruzione della moneta unica. Di qui lo scetticismo che si mescola al giudizio positivo sul summit di venerdì. Lo scudo anti-spread può dare un sollievo al Tesoro italiano, riducendo il costo del suo rifinanziamento. Ma se l’economia italiana non innesca un boom di produttività , come può essere sostenibile la sua permanenza nell’euro? Il Washington Post avverte che «l’Italia resta il numero due nella produzione industriale europea, grazie a migliaia di imprese efficienti e innovative; alcune delle sue regioni non temono confronti con Germania e Francia», e tuttavia le aree di eccellenza «sono troppo poche, su di esse gravano una cultura imprenditoriale arretrata e i costi delle inefficienze di sistema». Per cui sta diventando insopportabile «il fardello di quelle regioni e settori che sono al livello di Grecia e Portogallo».
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