Pubblicate, pubblicate… nessuno vi leggerà 

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Non è tradire un segreto, ma una semplice constatazione, l’affermare che l’università  moderna, in maniera generalizzata e da molto tempo, si trova ad affrontare un problema serio – per usare un termine prudente. Lo scandalo di Bayreuth (l’ex ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg accusato di plagio nella sua tesi di dottorato, nel febbraio 2011) ha fatto emergere solo un minuscolo segmento di una confusione di cui nessuno, o quasi, può valutare la dimensione storica e di sistema.
Bisognerebbe essere molto ingenui per presumere che gli studenti e i docenti d’oggi smettano, nel varcare la soglia di un’università , di essere figli della loro epoca. Lo spazio universitario non può semplicemente rendersene immune (…).
Per cogliere la differenza specifica tra il plagio universitario e tutti gli altri casi di disprezzo della “proprietà  intellettuale”, bisogna tener conto della specificità  inimitabile delle procedure accademiche. Visto dall’esterno, il mondo universitario fa l’effetto di un biotopo specializzato nella produzione di “testi” il più delle volte bizzarri e totalmente estranei al popolare. Vanno dalle relazioni sui seminari e dai compiti semestrali alle tesi e alle dissertazioni di abilitazione, passando per le tesi di diploma o di specializzazione e per gli scritti degli esami, per non parlare delle valutazioni, dei progetti di ricerca, dei memorandum, dei progetti di struttura e di sviluppo, ecc.: tanti vegetali testuali che sbocciano esclusivamente nel microclima dell’Accademia – paragonabili a quelle piante striscianti delle Hautes-Alpes che sopravvivono ad altitudini alle quali gli alberi non crescono più – e che, generalmente, non sopportano di essere trapiantati nelle pianure libere e piatte della vita editoriale.
Il plagio universitario si sviluppa di conseguenza, nella maggior parte dei casi, in condizioni nelle quali i motivi che intervengono di solito nel non-rispetto della proprietà  intellettuale, il fatto spesso evocato di farsi belli con le penne degli altri, non possono giocare alcun ruolo. Mentre in un terreno libero si ritiene che le piume degli altri migliorino la capacità  di attrazione di chi le porta e di aumentare la sua “fitness erotica”, per usare il gergo dei biologi, le piume degli altri, in ambito universitario servono piuttosto a camuffarsi e a immergersi nell’ordinario. Esse aiutano il portatore di piume a passare inosservato nel flusso regolare delle masse di testi. Il filosofo Michel Foucault ha riassunto questa situazione già  all’inizio degli anni Settanta, introducendo la parola “discorso” nell’autodescrizione delle produzioni di testi universitari. Ciò che egli chiama “discorso” non è che il testo senza autore, il discorso specializzato come istituzione. Questa interpretazione delle routine discorsive universitarie e, più in generale, istituzionali, ci apre la strada non tibetana verso il principio della ruota di preghiera. Chi non vuol parlare di discorsi farebbe dunque meglio a non dire nulla a proposito dei plagi.
Lo scioglimento del plagio nel discorso non è sufficiente per capire in maniera esaustiva la singolarità  del plagio universitario. In questo caso preciso interviene a supplemento un fattore del tutto idiosincratico, per la comprensione del quale la cosa migliore sarebbe ricorrere alla ricerca letteraria. Con il suo libro L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica (il Mulino, 1987), scritto nel 1972, Wolfgang Iser, l’eminente rappresentante di una Scuola di Costanza divenuta storica, se non ha rivoluzionato la sua disciplina e le scienze umane in generale, le ha quanto meno fatte avanzare di molto, dimostrando che si può far apparire in ogni testo un’intima complicità  tra l’autore e il lettore ipotetico – un legame attivato dalla lettura.
Leggere significa, di conseguenza, riportare in vita delle strutture di richiamo inerenti al testo e immergersi nel gioco dell’interpellazione, dell’interpretazione anticipata, dell’inganno, del rifiuto e del recupero. Ogni testo elaborato costituisce un’entità  composta da segni che ne guidano la ricezione, che il lettore mette in scena in un modo al tempo stesso volontario e involontario, nella misura in cui legge realmente.
Nella prospettiva della situazione universitaria, le analisi sottili degli esteti della ricezione fanno l’effetto di reminiscenze di una lontanissima Età  dell’oro della lettura nella quale ogni testo era ancora quasi un billet doux, una lettera d’amore. Nessun universitario lo negherà : è tempo di completare la teoria del lettore implicito con quella del non-lettore implicito. Dovremmo più o meno renderci conto della situazione partendo dall’idea che tra il 98% e il 99% dei testi che escono dall’università  è redatto nell’aspettativa, giustificata o meno che sia, di una parziale o totale non lettura di quei testi stessi. Sarebbe illusorio credere che questo potrebbe non avere un effetto sull’etica dell’autore.
Per i membri di una cultura che, in ogni cosa, insegna loro a seguire e a non seguire la regola, ne deriva una conseguenza obbligatoria, la necessità  di dare al non-lettore ciò che gli spetta. Ci si rivolge paradossalmente al non-lettore
implicito rivolgendogli dei gesti di rifiuto, e questo non-lettore è inerente al testo, in quanto è colui che, comunque, non andrà  a guardarci dentro.
Chi scrive senza speranza di ricezione ha inoltre e suo malgrado la tendenza a integrare nella sua produzione dei passi che non ne fanno parte e sono predestinati ad alimentare la variante accademica della non-lettura nella misura in cui sono stati verificati in anticipo da letture che sono forse già  state fatte altrove. Il regno delle ombre dell’università  genera così un mondo testuale di second’ordine nel quale dei secondogeniti veramente non letti mantengono nel circuito dei primogeniti virtualmente non letti.
In questo sistema, la lettura reale inattesa porta alla catastrofe. Qui, l’interessante è il fatto che ciò che chiamiamo la lettura reale non può avere luogo, tenendo conto delle mostruose valanghe costituite dalle produzioni universitarie scritte. Oggi, solo le macchine per la lettura digitale e i programmi di ricerca specializzata sono in grado di rivestire il ruolo di delegati del lettore autentico e di entrare in dialogo o in nondialogo con un testo. Il lettore umano – chiamiamolo il professore – è, invece, inadempiente. È anche e proprio in quanto uomo dell’università  che lo specialista è condannato da tempo a essere più un non-lettore che un lettore.
La conseguenza pratica di tutto ciò non può essere che la riduzione delle istigazioni sistemiche a produrre del testo nel modo dell’impostura. Il miglior modo per arrivarci è ricordare con insistenza, agli autori praticamente non letti dei testi oggi e domani immanenti all’università , l’esistenza di quei guardiani digitali di buoni costumi che, praticando la lettura automatica, svelano la differenza tra plagi e citazioni. Si commetterebbe un errore se si legalizzassero le citazioni non specificate, come reclamano certi sostenitori del romanticismo della pirateria universitaria. La cultura della citazione è l’ultimo fronte sul quale l’università  difende la propria identità . Può essere sfidata da una nuova ondata di soggettività  di impostori che si fanno forti del digitale, dell’ironia e dello spirito della pirateria; ai nuovi giocatori, che fanno i loro scherzi giocando sulla regola del minimo di lavoro serio, bisogna far capire dove sta il limite. La cultura avanza su quelle sue piccole gambe che sono le virgolette. Le virgolette sono la cortesia del pirata.
Bisognerebbe mettere all’ingresso di tutte le facoltà  il cartellonCave lectorem!n– per i non latinisti: “Attenti al lettore!”. Con questo avvertimento potrebbe forse cominciare ciò che i benintenzionati chiamano il lavoro a una nuova etica del comportamento scientifico.
(Traduzione di Luis E. Moriones)


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