Proprietà intellettuale con i piedi d’argilla
Alla fine il parlamento europeo ha respinto la ratifica del trattato Acta, acronimo di un insieme di norme contro la contraffazione e in difesa della proprietà intellettuale messe a punto da un gruppo di lavoro composta da avvocati, imprese multinazionali e governi nazionali sorto all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio, ma caldamente sostenuto anche dal Fondo monetario internazionale.
Il voto del parlamento – 478 voti contro la ratifica, 39 a favore e 165 astenuti – è venuto dopo mesi di discussioni e polemiche che hanno visto la formazione di una coalizione di associazioni dei diritti civili, piccole imprese e personalità politiche di tutti i gruppi politici di Strasburgo. Da una parte, i sostenitori di Acta, che ritengono come la proprietà intellettuale sia comunque un principio da rispettare; dall’altra, l’eterogenea coalizione che sostiene come la proprietà intellettuale non possa entrare in contrasto con il diritto di accesso alla conoscenza, tanto più se ha la forma di un brano musicale o di un film.
Ma è tutta la storia di Acta (l’acronimo sta per «Anti-Counterfeiting Trade Agreement») ad essere segnata da tensioni, polemiche e conflitti. La necessità di rafforzare le norme sul commercio internazionale della proprietà intellettuale viene avanzata, agli inizi del nuovo millennio, all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio dopo che le norme del Wto hanno conosciuto una crescente opposizione degli stessi paesi membri. Nel 2007 viene istituito un gruppo informale di lavoro in cui sono presenti i rappresentanti di alcuni paesi, di alcuni organismi politici regionali – l’Unione europea e l’Asean -, di alcune multinazionali e delle associazione delle imprese discografiche, cinematografiche e del software. Per due anni, il gruppo lavora in gran segreto. Le indiscrezioni parlano di un testo in formazione che fa proprie le posizioni delle multinazionali. Indiscrezioni smentite, fino a quando alcuni quotidiani statunitensi pubblicano alcune parti del testo. Le reazioni sono furibonde. C’è chi parla di un colpo di mano dei rentiers del sapere e dell’entertainment, chi di un tentativo di golpe che esautora la sovranità nazionale sulla proprietà intellettuale. Posizioni critiche che hanno un punto in comune: quel gruppo di lavoro non ha la legittimità di lavorare su un argomento molto controverso come la proprietà intellettuale, ritenuta ormai e a ragione una vera e propria forma di postmoderna rendita.
È da un decennio, infatti, che le norme internazionali sul copyright, i brevetti e i marchi sono ampiamente criticate non solo dai paesi nel Sud del mondo, ma anche in quelli nel Nord del pianeta. Negli Stati Uniti,, giuristi come Lawrence Lessig o ricercatori scientifici come Marvin Misnky chiedono una riforma delle leggi sulla proprietà intellettuale che ripristini il «pubblico dominio» delle opere culturali e il riconoscimento di norme alternative a quelli esistenti, come il Copyleft o i Creative Commons. Lo stesso avviene in Francia e in Inghilterra, dove un gruppo di lavoro voluto dal parlamento di Westminster presenta un rapporto fortemente critico sia dei cosiddetti Trips (i Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights, le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio) che le leggi inglesi. Lo stesso accade in Francia. Va detto che i governi dei due paesi ignorano i rapporti e sono in prima fila a difendere Acta. Nel frattempo un gruppo di paesi – India, Brasile, Cina, Venezuela e Sudafrica – presentano proposte affinché venga rafforzato il diritto a violare le norme del Wto nel caso siano in conflitto con emergenze nazionali, così come era accaduto negli anni Novanta del Novecento, quando il Brasile e il Sudafrica hanno prodotto farmaci contro l’Aids violando i brevetti detenuti dalle multinazionali farmaceutiche. Il gruppo di lavoro su Acta continua imperterrito e presenta ufficialmente il testo di un possibile accordo nel 2011, che viene subito sottoscritto da Australia, il Canada, il Giappone, la Repubblica di Corea del Sud, Messico, Marocco, la Nuova Zelanda, la Repubblica di Singapore, Svizzera e Stati Uniti . E proprio negli Stati Uniti, il presidente Barak Obama chiede e ottiene di secretare Acta per ragioni di sicurezza nazionale, cancellando così tutte le promesse fatte per un allentamento delle norme liberticide sulla proprietà intellettuale. A Tokyo, nel 2012, viene firmato da gran parte dei paesi che fanno parte del Wto, tra cui 22 paesi dell’Unione europea, Italia compresa, con una clausola: che venga ratificato dai parlamenti nazionali o dagli organismi sovranzionali.
È iniziata lì una mobilitazione capillare in Rete. Protagonisti associazioni dei diritti digitali, piccole imprese high-tech e personalità politiche progressiste e conservatrici. Che riesce a cambiare i rapporti di forza nel parlamento europeo, arrivando al voto di ieri che respinge la ratifica di Acta. E ieri il tam tam della bocciatura è rimbalzato di nodo in nodo nella Rete, diffondendo così molecolarmente una buona notiza.
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