Preferenze, «il male assoluto»

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Opinione che si immagina parecchio condivisa dagli elettori che ventuno anni fa si precipitarono (95,6% di sì al referendum) ad abrogare il vecchio sistema, aprendo allegramente la strada alle candidature imposte dai partiti. No alle preferenze, si diceva e si dice, perché permettono il voto di scambio e il controllo da parte della criminalità  organizzata. E perché provocano un aumento delle spese elettorali, ogni candidato corre per sé facendo la gara contro gli altri candidati della stessa lista di partito e, si sostiene, alla fine chi ha più mezzi economici è favorito. C’è un altro mezzo per riconsegnare agli elettori la possibilità  di scegliere direttamente il proprio parlamentare, è l’argomento definitivo, ed è l’uninominale di collegio a uno o due turni, dove chi prende più voti è eletto. Sono argomenti opinabili. Intanto partendo da una considerazione generale: qual è il livello di affidabilità  di un partito che non vuole le preferenze perché ha paura del voto di scambio in favore dei suoi candidati ? Candidati, è bene ricordarlo, che dal partito sono selezionati e messi in lista. Se un cliente entra in un supermercato e chiede di togliere tutti i prodotti dagli scaffali perché altrimenti gli vien voglia di rubarli, difficilmente lo accontentano. Forse qualcuno chiama la polizia. E poi: se con l’uninominale l’elettore trova sulla scheda il candidato scelto dal partito, paracadutato in un collegio più o meno sicuro in base al suo peso politico, in cosa esattamente consiste la libertà  di scelta? Nel dire sì o sì (o no, favorendo il partito concorrente)? Nessuno ricorda più il passaggio di Di Pietro nel Mugello? A queste ultime obiezioni, i sostenitori dell’uninominale e tra loro il segretario del Pd rispondono richiamando le primarie: ecco lo strumento che permette una selezione delle candidature davvero popolare, aperta. Ma a essere logici, non vale per le primarie lo stesso argomento usato contro le preferenze? Non sono anche quelle una competizione dove chi può investire di più è favorito? Oltretutto per le elezioni politiche esiste una soglia massima di spesa, stabilita per legge. Per le primarie (che in assenza di una norma specifica restano un fatto privato) questi limiti sono affidati alla buona volontà  dei partiti che le organizzano. E alla loro capacità  di controllo. Ci sembra di ricordare che a Napoli e a Palermo qualche dubbio sulla trasparenza delle primarie c’è stato. Infine, è poco corretta anche la ricostruzione secondo la quale le preferenze sono state il canale principale, o addirittura esclusivo, attraverso il quale è passato il controllo malavitoso sul voto. Una prova si può fare cercando sul sito del Viminale i risultati della Democrazia Cristiana (partito non al di sopra di ogni sospetto in quanto a relazioni con mafia e camorra) alle ultime due elezioni politiche con le preferenze (1983 e 1987), prendendo a campione due città  ad alto rischio criminale: Palermo e Napoli. Ebbene, i risultati sono praticamente identici sia nelle elezioni per la camera, dove c’erano le preferenze multiple, sia nelle elezioni per il senato, dove la preferenza non c’era. I voti, al netto della differenza nel corpo elettorale, sono gli stessi. Allora, o si sostiene che la Dc degli anni Ottanta in quelle città  era un partito specchiato la Dc di Salvo Lima e Antonio Gava oppure si deve ragionevolmente riconoscere che le preferenze non spiegano tutto. Mafia e camorra avevano e hanno altri strumenti pervasivi per influenzare il voto. Che i partiti dovrebbero cercare di contrastare evitando di affidarsi a soluzioni semplici. Demagogiche.


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