by Editore | 29 Luglio 2012 9:54
«Lavoravo per un assassino». È l’incipit del nuovo romanzo di Philippe Djian che, fedele a se stesso, trascina subito il lettore in un intrigo di personaggi e atmosfere che per duecento pagine non danno tregua. Come la pioggia torrenziale che cade su Hénochville, una piccola città di montagna dominata da una fabbrica che dà lavoro ai suoi abitanti mentre uccide, inquinandolo, il fiume della regione. L’acqua, sorgente di vita e di morte, è l’elemento naturale nel quale si muove Patrick Sheahan, il protagonista alle prese con uno strano sequestro. Assassini è primo volume di una trilogia che l’editore Voland pubblica adesso, quasi diciotto anni dopo la sua uscita in Francia, proseguendo la riscoperta delle opere di uno degli autori francesi più di culto, del quale Michel Houellebecq e altri si sentono discepoli. «Non sono maestro di nessuno. Ho fatto solo prima di altri quello che nessuno osava fare in Francia», racconta ora Djian, 63 anni, diventato famoso negli anni Ottanta con 37 °2 al mattino poi adattato al cinema da Jean-Jacques Beineix.
Com’è nata l’idea di questa trilogia? «Dopo così tanti anni posso dirlo, forse c’è la prescrizione. Confesso: all’inizio non avevo in mente nessuna serie. Antoine Gallimard, dopo aver letto Assassini, aveva commentato che era un romanzo troppo breve, quasi incompiuto. Rimasi sorpreso e, improvvisando, risposi che in realtà si trattava di una trilogia. Ma fino a quel momento non ci avevo assolutamente pensato». Com’è riuscito allora a dare un ordine ai tre romanzi?
«In Assassini ci sono i personaggi che abitano sul lato sinistro del fiume, mentre nel secondo volume, Criminels,
ci sono quelli del lato destro. È solo in Sainte-Bob, nome del fiume e titolo dell’ultimo libro, che si scopre che il narratore è uno scrittore e tutto il resto diventa chiaro».
Assassini, al plurale. Chi sono? «Un assassino è chi uccide una vita che avrebbe voluto vivere. Melville diceva: “Resta fedele ai sogni della tua giovinezza”. Purtroppo capita molto raramente. Siamo tutti degli assassini. Uccidiamo lentamente la persona che non riusciamo a essere».
Trovare un incipit folgorante è sempre necessario?
«Senza, non comincio neppure. Quando finisco un libro, per due o tre mesi non penso più a niente. Poi, di colpo, torna il desiderio, la voglia di scrivere. A quel punto non rifletto mai sulla trama o sui personaggi. Mi vengono in mente solo una serie di frasi. Una di queste diventa l’inizio del nuovo romanzo. Allora posso partire per il viaggio. Senza sapere dove mi porterà ».
La narrazione di Assassini si sviluppa quasi interamente a porte chiuse, con molti dialoghi.
«Uno scrittore non è un filosofo, uno storico o un sociologo. Credo che sia soprattutto qualcuno che costruisce il linguaggio. Nel mio caso, i dialoghi sono spesso lo strumento letterario più complesso per raffinare lo stile, cercando nelle pieghe della grammatica».
Si definirebbe, come sosteneva Céline, un “homme à style”, un autore di puro stile?
«Certo, perché sono convinto che con Shakespeare tutto sia già stato raccontato. Céline diceva anche: “Se volete leggere delle storie, comprate i giornali”.
Uno scrittore è fondamentalmente un artigiano di parole. Sono sempre alla ricerca di una frase che contenga il mondo intero, come mi è capitato di trovare con Raymond Carver o altri. Henry Miller, Vladimir Nabokov, Ernest Hemingway: scrittori che, attraverso lo stile, hanno catturato la melodia di un’epoca».
Quindi li considera anche superati?
«Per raffigurare il mestiere dello scrittore faccio spesso un esempio. È come tenere accesa una radio che gracchia mentre cerchi di sintonizzarti su qualcosa. Oggi la stazione di Carver e Hemingway forse non trasmette più un suono nitido, pulito. La lingua è viva, si trasforma. Bisogna riscoprire il lirismo o rafforzare il minimalismo? Non saprei. A me piace sperimentare. Posso scrivere frasi apparentemente liriche e poi interromperle con un improvviso “eccetera”, come si usa oggi. In un libro ho inserito un pollice nero alzato all’inizio di ogni paragrafo, perché credo che i segni facciano parte del nostro presente».
Nel 1981 Gallimard aveva rifiutato il suo primo libro, in quanto “al di fuori della letteratura”.
«Aveva ragione. Quando ho iniziato in Francia non esisteva questa volontà di sintonizzarsi con la melodia di un’epoca. C’era ancora un’idea ottocentesca della letteratura. Oggi quello che scrivo è meno sorprendente. Ci sono autori come Houellebecq o Virginie Despentes. Non voglio arrogarmi nessuna paternità . Scrivere non è una grazia che cade dal cielo. Solo duro lavoro».
La disturba quando la presentano come il più americano degli scrittori francesi?
«È una definizione senza senso. L’unica cosa vera è che gli autori americani mi hanno segnato profondamente quando avevo vent’anni. A quell’età un libro non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un punto di vista. È quel che è successo a me dopo aver letto Il giovane Holden.
Dopo, non vedi più il mondo con gli stessi occhi. È stato allora che ho deciso di fare lo scrittore».
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