by Editore | 5 Luglio 2012 10:21
«Per i francesi, la guerra d’Algeria è una ferita ancora aperta. Qualcosa però sta cambiando. Qualche anno fa, infatti, non avrei mai potuto scrivere un romanzo sull’uso della tortura durante il conflitto senza suscitare reazioni violente. Sarebbe stato impossibile». A cinquant’anni esatti dall’indipendenza dell’Algeria, nelle pagine intense e drammatiche di Dove ho lasciato l’anima (Fazi) Jérà´me Ferrari rievoca “la sporca guerra” condotta dai soldati francesi dal 1956 al 1962, per cercare di difendere la più importante delle loro colonie. Lo scrittore francese costruisce il romanzo attorno a tre personaggi (due ufficiali francesi e un militante algerino loro prigioniero) confrontati con la violenza del conflitto, l’uso della tortura, la sofferenza di chi la subisce e le contraddizioni di chi la infligge. Il risultato è un ottimo romanzo, pluripremiato in Francia, vero caso letterario del Paese. «Il crimine contro l’umanità colpisce l’umanità della vittima, ma anche quella del carnefice», spiega Ferrari, un corso di quarantaquattro anni, insegnante di filosofia e autore di una mezza dozzina di romanzi. «Non volevo scrivere semplicemente un romanzo storico o un romanzo realista. M’interessava piuttosto parlare di una situazione universale, ancora d’attualità in Iraq, in Afghanistan o negli Stati Uniti del dopo 11 settembre».
Perché uno scrittore nato sei anni dopo la fine della guerra d’Algeria decide di scrivere un romanzo su quel conflitto?
«Ho insegnato quattro anni ad Algeri, dove ho iniziato a interessarmi alla storia di quel periodo. Poi ho visto un documentario di Patrick Rotman, in cui un ex-tenente dei paracadutisti raccontava l’arresto di uno dei capi del Fronte di liberazione nazionale ad Algeri, Larbi Ben M’hidi, che poi fu torturato e giustiziato senza processo. Ne parlava con rispetto, riconoscendo il fascino che il prigioniero aveva esercitato su di lui. Il libro è nato da lì».
In effetti, lei mette in scena un capitano francese affascinato da un capo della resistenza algerina suo prigioniero…
«Anche tra i paracadutisti che si resero responsabili dei più atroci atti di tortura c’erano individui che s’interrogavano
su quello che stavano facendo. Molti di quei militari avevano partecipato alla seconda guerra mondiale, spesso nelle file della resistenza, erano stati torturati e internati nei campi di concentramento. In Algeria però i carnefici erano diventati loro. Il capitano Degorce sa di essersi trasformato in ciò che in passato aveva combattuto ».
Accanto a lui, c’è il tenente Andreani che invece pratica la tortura senza farsi domande…
«Non m’interessava creare personaggi manichei, uno a favore della tortura e uno che vi si oppone. I miei due personaggi vivono la stessa contraddizione, reagendo però in modo diverso: uno se ne assume la responsabilità e l’altro no. La loro relazione e il conflitto rispetto al prigioniero sono al centro del libro. Attraverso il tenente Andreani, ho cercato di mostrare un discorso ignobile, moralmente indifendibile, ma sorretto dalla logica di chi ha una missione da svolgere e quindi usa tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la tortura».
A un certo punto il capitano smette di lottare contro “la propria infamia”. Significa che il contesto di guerra e odio trasforma inevitabilmente gli uomini, senza possibilità di resistere?
«Quando il capitano si rende conto di aver perso l’anima, per lui è ormai troppo tardi. Purtroppo la maggior parte delle persone non resiste al contesto. Sono pochissimi quelli che ci riescono, costringendo gli altri a interrogarsi. Se infatti nessuno fosse capace di resistere, in fondo il problema non si porrebbe e tutti potremmo usare la scusa delle circostanze. Quei pochi che ce la fanno dimostrano invece che la resistenza è possibile, togliendo a tutti noi un comodo alibi».
Nel romanzo uno delle vittime dei militari è un militante comunista francese che appoggia la resistenza algerina. La guerra d’Algeria è stata anche una guerra civile all’interno della società francese?
«Lo è diventata alla fine, quando sono cominciati gli attentati dell’Oas. Va detto però che all’inizio i francesi favorevoli all’indipendenza degli algerini furono pochissimi. Solo una minoranza ha appoggiato e aiutato l’Fln, a cominciare da Sartre e altri intellettuali. In realtà , più che una guerra civile, fu una classica guerra coloniale contro un popolo che cercava di riconquistare l’indipendenza e la legittimità cui aveva diritto».
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