PALLONE E SCOMMESSE IL CALCIO È UN ROMANZO

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Non lasciatevi confondere da quel paio di scarpini in copertina appesi al chiodo di un “qualche tipo di muro”, perché Lo Zingaro e lo Scarafaggio (Mondadori, pagg. 191, euro 17) dei nostri Giuliano Foschini e Marco Mensurati non è un libro sul calcio, né una storia di sport. Purtroppo. O, almeno, non solo. E’ uno di quegli “oggetti narrativi non identificati” che raccontano in soggettiva molto più di quanto non prometta il canovaccio: un montaggio sapiente, “cinematografico” nel ritmo, delle storie degli uomini, delle loro miserie e fortune, che le inchieste delle Procure di Cremona e Bari hanno pescato in quella cloaca battezzata “scommessopo-li”, ultima stazione (ma solo in ordine di tempo) del binario morto su cui il nostro calcio professionistico ha allegramente imbarcato se stesso e le nostre passioni. Lo Zingaro e lo Scarafaggio parla di noi altri. E’ potente metafora di un mistero apparente, tale in realtà  solo se si dimentica che cosa il nostro Paese è diventato. E che, all’osso, è in una domanda che suona così: come ci si può ancora emozionare per un gioco meraviglioso che sappiamo essere stato taroccato in ogni sua piega? Nei corpi (il doping), nelle regole (gli arbitri), nei bilanci dei club, in campo (giocatori che scommettono contro la loro maglia). Detta altrimenti, siamo sicuri che in ciascuno di noi, lentamente, non abbia messo radici un po’ dello “Zingaro” (il macedone Hristiyan Ilievski, l’uomo nero delle scommesse) o un po’ dello “Scarafaggio” (il modesto Gervasoni, mestierante del pallone che prima si vende e lesto si pente), fino a renderceli tollerabili, come un dato folcloristico del paesaggio? Perché in fondo solo un Paese bambino e immemore, o al contrario molto cinico, e che comunque detesta sentirsi raccontare la verità , può ancora dire di credere davvero in ciò che vede il sabato e la domenica in un campo di pallone di serie A, B, e Lega pro. Hic sunt leones, andrebbe scritto all’ingresso degli stadi. E non è faccenda solo di ultrà . Foschini e Mensurati l’eccezionalità  del pallone l’hanno misurata nel loro lavoro. Per Repubblica e per questo loro libro. Ed è a ben vedere un buon segno che se ne stupiscano, perché è dimostrazione di limpidezza e freschezza di sguardo. Scrivono: «In questo Paese strano, si può fare di tutto, tranne che toccare le squadre di calcio. Abbiamo visto stimati professionisti perdere completamente il lume della ragione, trasformarsi in avvocati faziosi o beceri ultrà  di fronte alle evidenze, in effetti scabrose, raccontate dalle inchieste di Cremona e Bari. La verità  è che scrivere in un certo modo di calcio, oggi, è diventato un mestiere piuttosto pericoloso e, incredibilmente, richiede un certo coraggio».
La vulgata vuole che questo accada perché il calcio è un tipo di industria dalla ormai troppo lunga e talvolta sorprendente catena alimentare. Che troppi sono gli appetiti che sfama per tollerare rompiscatole. Siano magi-strati, sbirri, giornalisti estranei al circo (non a caso considerati, nella percezione delle curve, gli uni deteriore sottospecie degli altri). E come ogni luogo comune, la circostanza ha una sua oggettiva verità . Ma, forse, c’è anche dell’altro. Nel Paese delle “mele marce”, del «a sua insaputa», guai a dire che nel cestino, ormai, di frutti sani se ne contano sulle dita di una mano. Guai a imbarcarsi per la Macedonia (come Foschini e Mensurati hanno fatto) per andare a cercare un uomo che ha una storia che sarebbe meglio non conoscere. Perché in quella voglia di verità  c’è una pulizia intollerabile che i padroni del giocattolo rotto conoscono e temono.
Chiedete al procuratore di Bari Antonio Laudati, a quello di Cremona Roberto Di Martino, al gip Guido Salvini, ai poliziotti dello Sco se gli piace il calcio. La risposta sarà  «si». Sono pazzi per il calcio. Come Foschini e Mensurati. E il loro
Lo Zingaro e lo Scarafaggio anche per questo è un regalo a questo gioco meraviglioso e a chi lo ama sentendosi ogni volta bambino, ma con la forza di essere finalmente adulto.


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