by Editore | 21 Luglio 2012 14:11
ROMA — Ferito e vacillante tra ira e amarezza? O intimidito e su una linea arrendevole? O magari in silenzio perché prigioniero di quella solitudine affollata di fantasmi che si materializza in ogni fine mandato al Quirinale? Non sembra davvero di questo tipo — come alcuni scommettevano — l’umore di Giorgio Napolitano all’ultimo incontro con i cronisti politici, prima della pausa estiva. Si mostra freddo e determinato, semmai. Puntiglioso verso quanti (da Di Pietro al Fatto Quotidiano) hanno aperto una campagna contro di lui. Accetta la sfida e dice: «Non ho nulla da nascondere, ma un principio da difendere, di elementare garanzia della riservatezza e della libertà nell’esercizio delle funzioni di capo dello Stato. Mi spiace che da parte di qualcuno non si intenda la portata di questa questione».
E, a beneficio di chi pur sostenendolo coltiva comunque dubbi sul conflitto di attribuzioni tra poteri (il suo e quello della Procura di Palermo) che ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale, aggiunge un ragionamento di metodo. In cui spiega come interpreta il proprio ruolo, annunciando che non arretrerà . «Può darsi che la mia scelta non risulti comoda per l’applauso e mi esponga a speculazioni miserrime. Ma non è stato semplice neppure richiamare senza infingimenti l’aggravarsi dei problemi del Paese e l’urgere dei cambiamenti e sacrifici da compiere. E tuttavia continuerò a non cedere alla tentazione di discorsi facili e confortevoli opportunismi. Parlare un linguaggio di verità e di responsabilità è parte dei doveri di un presidente».
«Speculazioni miserrime», dunque una sorta di manovra per delegittimare lui e terremotare il governo. Ecco come il capo dello Stato giudica le accuse grandinate sul Quirinale, dopo che ha affidato alla Suprema Corte il destino dei suoi colloqui telefonici con Nicola Mancino (colloqui «irrilevanti», intercettati su ordine dei pm palermitani al lavoro nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia). Quella decisione, insiste, «è stata dettata — fuori da qualsiasi logica di scontro — dal dovere di promuovere un chiaro pronunciamento, nella sola sede idonea, su questioni delicate di equilibri e prerogative costituzionali, ponendo così anche termine a una campagna d’insinuazioni e sospetti senza fondamento e al trascinarsi di polemiche senza sbocco sui mezzi d’informazione». Di più, evocando il «conforto» avuto da Agnese Borsellino e dai suoi figli, ricorda: «Sulla lotta contro la mafia, sulla ricerca della verità e della giustizia senza nulla occultare e proteggere, conta quello che è stato per me l’impegno di una vita». E conta ciò che ha sempre ripetuto, quando ha «riaffermato i valori dell’autonomia e indipendenza della magistratura, senza indulgere a posizioni bonarie o acritiche».
Basteranno queste parole a fermare l’assedio del Colle? Difficile, visto l’ennesimo rilancio di Antonio Di Pietro: «Napolitano sta tradendo la Costituzione». Una bordata insopportabile, per un capo dello Stato che, dichiarandosi «per storia e cultura intimamente legato alla Costituzione», rivendica di non essere «fuoriuscito, neppure di un millimetro, dal ruolo e dai poteri disegnati nella Carta». Lo rivendica durante la cerimonia del Ventaglio, nella replica a un interrogativo sul «presidenzialismo di fatto» postogli dal presidente della Stampa parlamentare, Alessandra Sardoni. È un vecchio tema, che rispunta (e scandalizza) a intermittenza, specie dall’epoca di Cossiga in poi. Napolitano taglia corto. Dice di «non capire che cosa sarebbe questo presidenzialismo di fatto affermatosi in questi anni». Definisce la propria azione come coerente con le prerogative che gli sono attribuite. E sostiene di essersi mosso «con la determinazione e la capacità d’iniziativa dettatemi da ricorrenti tensioni politico-istituzionali e suggeritemi dall’esigenza di offrire punti di riferimento positivi e non di parte a un’opinione pubblica spesso scossa e inquieta». Mai «sfiorato da volontà di protagonismo personale», sillaba in una specie di autoanalisi. «Tantomeno a scapito degli equilibri costituzionali». Nessuno «strappo o forzatura», assicura, neanche per come ha pilotato il passaggio da cui è nato il governo Monti. Da allora si è creata una «coesione nazionale e un senso dell’interesse generale e della responsabilità » che spera possano essere confermati quando verrà il momento del voto per dare al Paese «un governo politico». Saranno «mesi cruciali, con un nodo irrisolto da superare»: «Quello di una nuova legge elettorale che scongiuri il ripetersi di guasti largamente riconosciuti». Lui, a futura memoria, verbalizza che lavorerà fino — e non oltre — «la fine del mandato, che avrà termine entro il maggio 2013».
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