Napolitano e la morte di D’Ambrosio: contro di lui una campagna violenta

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LONDRA — L’ha saputo intorno alle quattro del pomeriggio, pochi minuti dopo che Loris D’Ambrosio era stato stroncato da un infarto in una strada di Roma, dalle parti dell’Auditorium. «Ucciso quasi in un attimo, nell’impotenza dei soccorritori». Questa la notizia che il segretario generale del Quirinale, Donato Marra, ha dato ieri al presidente Repubblica, in partenza per la cerimonia inaugurale dell’Olimpiade. Una comunicazione angosciosa, alla quale nessuno dello staff riusciva a credere. A cominciare da Giorgio Napolitano: ammutolito, gli occhi lucidi, ha chiesto subito carta e penna e scritto di getto un testo carico di commozione e di amarezza. Righe concepite per rendere l’onore a un uomo che gli era stato molto vicino in questi anni e, più che mai, in questi ultimi tempi.
Un addio diviso in tre parti. Che si apre con l’annuncio, «con animo sconvolto e profondo dolore», della perdita «gravissima» del proprio consigliere, «prezioso collaboratore mio come già  del mio predecessore». Seguito poi da un ritratto nel quale si spiega «l’apporto della sua alta cultura giuridica e delle sue esperienze e competenze di magistrato giunto ai livelli più alti della carriera». Insomma, il profilo di un «infaticabile e lealissimo servitore dello Stato», «impegnato in prima linea anche al fianco di Falcone nel costruire più solide basi di dottrina e normative per la lotta contro la mafia», così come aveva fatto «contro il terrorismo». E, a sigillo di chiusura, un aspro j’accuse, nel quale denuncia la campagna di cui D’Ambrosio — e lo stesso capo dello Stato — era oggetto da un paio di mesi. «Atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità  di magistrato intemerato, che ha fatto onore all’amministrazione della giustizia del nostro Paese».
Solo a questo punto, dettato questo veemente necrologio al proprio ufficio stampa e «superato un momento di incertezza», Giorgio Napolitano è salito sulla scaletta dell’aereo alla volta di Londra, dov’è giunto in serata. Chi era in viaggio su quel volo lo ha visto «silenzioso, provato e, anzi, distrutto». Una descrizione magari enfatica ma coerente con l’«atroce rammarico» da lui stesso confessato e con le altre pesantissime espressioni che ha scelto per definire il tritacarne politico e mediatico di cui D’Ambrosio è stato vittima (più o meno indiretta, perché questa è la conclusione che se ne trae). 
Non è un mistero chi siano, per il presidente, gli animatori della «campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose». Sul versante politico c’è Antonio Di Pietro e su quello mediatico Il Fatto Quotidiano (e, fatalmente, sullo sfondo, qualche magistrato). Entrambi impegnati in un assedio del Quirinale cominciato con la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche tra l’ex ministro Nicola Mancino, in cerca di aiuto perché accusato di falsa testimonianza dalla Procura di Palermo nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, e, appunto, D’Ambrosio. Un pressing umiliante per il consigliere che, per quanto non fosse imputato di nulla, si è trovato al centro della bufera, soffrendone tantissimo. Attacchi che si sono fatti martellanti e senza remore quando i pm titolari dell’inchiesta hanno reso noto di aver intercettato, tra gli altri, alcuni colloqui al telefono di Napolitano. E, se pure li avevano qualificati come «irrilevanti», avevano però comunicato che non intendevano distruggere le bobine. Una sfida che ha spinto il capo dello Stato a sollevare un conflitto di attribuzioni contro quella Procura davanti alla Corte costituzionale, «a tutela di un principio». Ciò che ha esasperato la prova di forza e, forse, nella convinzione di qualche membro dello staff, ridotto allo stremo la capacità  di resistenza del sessantaquattrenne Loris D’Ambrosio.


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