Mr.Arte Un collezionista da “Urlo” ecco l’uomo dei miliardi che si è aggiudicato Munch

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WASHINGTON – Alla velocità  di dieci milioni di dollari al minuto — 120 milioni per un duello durato 12 minuti — fu dunque Leon Black, il grande razziatore che raccatta, spolpa e rivende società  a Wall Street, il misterioso acquirente dell’Urlo di Munch, il 2 maggio scorso a New York. È il prezzo più alto mai pagato per un’opera d’arte venduta all’asta, ma è soltanto un trofeo in più per lui e per la moglie Debra, da aggiungere alla sconclusionata quanto onnivora collezione di un miliardario che ha accumulato disegni di Raffaello e di Van Gogh, acquarelli di Turner, dipinti cubisti di Picasso, vasi cinesi e sculture di Brancusi, per un valore complessivo stimato a quasi un miliardo di dollari. E ha fatto di Black, il “Mister Art”, più invidiato e spregiudicato di New York. Nel “falò della vanità ” che sempre consuma il piccolo mondo della New York miliardaria, nessuna fiamma è oggi più intensa del triplex, dell’appartamento su tre piani in Park Avenue dove i signori Black custodiscono il loro museo privato.
Ma se nella furia di acquisizioni tanto prestigiose quanto disordinate, culminata del record dell’Urlo, c’è il segno riconoscibile e antico del ricco che vuole farsi “patron” dell’arte e darsi una nobiltà  culturale, l’acquisto di quel celeberrimo dipinto nasconde una verità  più profonda e dolorosa della semplice vanità . Quel teschio umano che urla nella tela del pittore norvegese ritrae la disperazione e racconta la tragedia di un ponte di Oslo, dal quale si lanciavano tanti suicidi e da dove si potevano ascoltare le urla dei ricoverati in un vicino manicomio, e tocca una ferita profonda nella memoria dell’acquirente.
Leon è il figlio di Elihu Menasche Blachowitz, un bambino ebreo polacco sbarcato negli Anni ‘20 a New York e divenuto il padrone della United Brands, la famigerata multinazionale della frutta già  United Fruits che dominava le piantagioni dell’America centrale, la regina della banana Chiquita.
Elihu Blachowitz, divenuto all’anagrafe Eli Black per semplicità  e per assimilazione, si uccise nel 1975, lanciandosi dal 44esimo piano del grattacielo Pan Am, stroncato dall’accusa di avere corrotto il dittatore honduregno Arellano.
Leon, il figlio che oggi ha comperato il simbolo del ponte dei suicidi a Oslo, aveva allora 24 anni.
Centoventi milioni di dollari per saldare, forse soltanto per lenire quel conto con il dolore aperto dal volo di suo padre e pagare alla sua memoria un tributo tardivo, sono molti, ma non per un uomo che, attraverso
il proprio fondo di investimento e di speculazioni, l’Apollo Investments, ha accumulato, secondo Forbes, un portafoglio personale di 3 miliardi e mezzo, amministrando i quasi 800 miliardi dei clienti. È appena al 103esimo posto nella classifica delle persone più ricche del mondo, ma da quel 2 maggio, quando lottò per interposta persona, e per via telefonica, con il solo concorrente cinese che lo aveva seguito oltre la soglia del 100 milioni, è sicuramente il numero uno del collezionismo privato, il bambino che possiede più palline oggi, a 60 anni. Ma Leo, per gli amici, i cortigiani e la moglie, produttrice a Broadway, non ha nessuna intenzione di smettere di giocare. Piuttosto corpulento e carnoso, con un bel sorriso sotto una testa di capelli grigi ancora scarmigliati e folti, Black sa che i momenti di crisi economica e di fallimenti son quelli nei quali i soldi fanno i soldi, e gli affari diventano più ghiotti. Già  alla Drexel Burnham, la finanziaria che creò e distrusse fortune negli Anni ‘80 facendo esplodere il mercato dei junk bond, delle obbligazioni spazzatura usate per rastrellare società , alla maniera di Gekko, il protagonista di Wall Street, Leo imparò l’arte del razziatore.
Nella sua collezione di società  acquisite per pochi soldi, spogliate di personale, divise in spezzatini e poi rivendute un boccone alla volta, c’è di tutto, dalla elettronica all’abbigliamento, secondo la stessa formula che ha fatto la fortuna di Mitt Romney, oggi l’avversario di Obama per le presidenziali di novembre. Le sue ultime razzie riguardano grandi cartiere in difficoltà  per il crollo delle vendite di settimanali che usano le carta migliore e che lui sta sottoponendo a violente cure dimagranti, per poi sperare di rivenderle quando il rapporto fra costi e profitti sarà  tornato positivo.
Ma se non esita a piombare su aste e capolavori, sapendo che nessuno potrà  superarlo, neppure il cinese che il 2 maggio alzò bandiera bianca arrivando a 119,5 milioni di euro per il Munch, ora si trova di fronte a un dilemma che neppure i soldi potranno sciogliere. È nel consiglio di amministrazione dei due principali musei di New York, il MoMa, il Museo di arte moderna, e il Metropolitan, istituzioni che non si sarebbero mai potute permettere di pagare 120 milioni per l’esemplare dell’Urlo venduto da un armatore norvegese che aveva personalmente conosciuto il pittore.
Chi sceglierà , fra i due musei? Si terrà  tutto il bottino per sé, nel triplex su Park Avenue, la grande e magnifica strada chiusa in fondo proprio dal grattacielo che vide il volo di suo padre e che lui può ammirare ogni giorno dalle finestre? O continuerà  ad acquisire altri pezzi, insaziabilmente? Neppure quei 120 milioni sono un record assoluto, che resta ai 250 milioni pagati per i
Giocatori di Carte di Cèzanne. Ci sono altre vette da scalare, altre palline da aggiungere alla collezione, per “Mister Art”.


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