Marx al tempo della crisi, sguardi plurali sul presente

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Il periodo di crisi che l’Europa innanzi tutto, ma in realtà  tutto l’Occidente, sta attraversando riporta in auge domande che sembravano dimenticate. Una su tutte: «Si tratta di una crisi congiunturale o strutturale del capitalismo?». Non solo, spazzate via tutte le previsioni sullo scontro tra civiltà , sulla fine della storia, riemergono analisi e discussioni sui meccanismi, le forme, i rapporti che sono alla base del sistema economico attuale. E allora torna con prepotenza, nei più diversi ambiti di pensiero, il nome di quello che ancora oggi può essere ritenuto il critico più acuto del sistema vigente, ovvero Karl Marx. 
Molti, però, utilizzando il pensiero del filosofo di Treviri per dare corpo e sostanza alle proprie analisi, dimenticano, o sembrano voler dimenticare, che quel pensiero critico non mirava semplicemente a descrivere una situazione in atto ma aveva come obiettivo il cambiamento dello stato di cose presenti. Un rischio, questo, che sicuramente non corre un testo come Marx e la società  del XXI secolo. Nuove tecnologie e capitalismo globale (Ombre corte, 2012, pp. 143, euro 14) tanto che i curatori, già  nell’introduzione, fanno esplicito riferimento a «un nuovo pensiero e una nuova pratica politica in grado di arginare e rovesciare il fallimento del presente». 
Il volume, a cura di Francesco Antonelli e Benedetto Vecchi, deriva dall’omonimo convegno, tenuto presso la Facoltà  di Scienze Politiche dell’università  Roma Tre, nel novembre dello scorso anno e contiene in appendice un saggio, davvero interessante, di Nick Dyer-Witheford che esplora in particolare il concetto di alienazione in relazione soprattutto agli scritti giovanili marxiani. 
Il primo intervento, di Benedetto Vecchi, è significativamente intitolato Marxiani nella società  della conoscenza. Il problema che pone è fondamentale: in una società  in cui il sapere è diventato preminente nella produzione della ricchezza, la cassetta degli attrezzi marxiana è in grado di offrire strumenti adeguati all’analisi e mezzi per mutare lo stato di cose esistenti? A partire dalla constatazione che «il General Intellect non è il “futuro che ci attende”, bensì un presente dove la critica all’economia politica deve misurarsi non con gli sviluppi a venire, ma con quelli già  avvenuti», il discorso si sviluppa principalmente su due versanti. Da un lato, sulla scorta delle analisi di autori come Bauman, Castells, Florida, Sennett si ripercorrono la genesi e le nuove problematiche suscitate dall’avvento del nuovo modo di produzione. Dall’altro, partendo dal presupposto hobsbawmiano di un Marx plurale, si tenta di identificare e di declinare in modo produttivo alcune categorie marxiane fondamentali quali lavoro vivo, plusvalore relativo e plusvalore assoluto, accumulazione originaria. 
Toni Negri, Paolo Virno, Sandro Mezzadra, David Harvey, Federico Vercellone, Sergio Bologna rappresentano i punti di riferimento lungo i quali si sviluppa la riflessione di Vecchi. Una riflessione originale e feconda che arriva alla fine a individuare il nodo problematico senza dubbio più importante, misurandosi con quella categoria per tanti versi sfuggenti che è la moltitudine e con la sua capacità  o meno di divenire classe.
Il breve, ma denso intervento di Carlo Formenti, analizza alcune categorie marxiane – plusvalore relativo e assoluto, sussunzione o meglio, secondo il lessico dell’autore, subordinazione formale e sostanziale, lavoro produttivo e improduttivo – all’epoca della Rete. E subito l’autore si dichiara in disaccordo con i cosiddetti neo-operaisti, Negri e Hardt su tutti, poiché non ritiene fondato che «saremmo entrati in un’era post-capitalista, caratterizzata da un nuovo modo di produrre, post-materiale e post-fordista», sostenendo invece che la New Economy non è altro che «una versione aggiornata del “classico” modo di produzione capitalistico». Il testo, così, diventa un ottimo contraltare a quello di Benedetto Vecchi e rappresenta, comunque, uno sguardo acuto sulle trasformazioni in atto all’interno del sistema economico e politico vigente. 
Sulla linea di Carlo Formenti si pone esplicitamente anche il testo di Robert Castrucci che si propone di dimostrare come «il carattere non mercantile delle comunità  di collaborazione online, non necessariamente sfocia in qualcosa di altro da, o addirittura di contro, il modo di produzione capitalistico» e che «il valore prodotto da queste comunità  diffuse può garantire un’accumulazione capitalistica alle imprese che fossero in grado di estrarne un valore di scambio». L’architrave su cui poggia tutto il discorso è che saperi, conoscenze, informazioni prodotti dall’intelligenza collettiva non sono da considerare per le imprese del capitalismo cognitivo, come ad esempio Google, prodotti del lavoro vivo, ma materie prime da cui estrarre valore, trasformandole in merci, ovvero «in informazioni utili per gli utenti» che generano profitto «nel momento in cui il tempo e l’attenzione degli utenti sono venduti agli inserzionisti pubblicitari».
Dopo questi primi tre interventi, volti a esaminare in un’ottica marxiana i rapporti fondamentali e i modi di produzione generali del capitalismo nell’epoca attuale, i contributi successivi mirano ad analizzare argomenti più specifici che comunque funzionano quasi da cartine di tornasole per comprendere lo stato di cose presenti. Così Francesco Antonelli si concentra sulle trasformazioni che hanno investito il ruolo e la funzione degli intellettuali, ripercorrendo anche la genesi di tale figura dal suo apparire sulla scena pubblica fino al suo mutarsi nell’«epifenomeno ormai spettrale dell’intellettuale-pop» in seguito al sorgere delle nuove figure di lavoratori della conoscenza, ovvero «lavoratori che sono anche intellettuali che riflettono e comunicano» e che soli, se «in grado di parlare alla generalità  della società », possono «spingere ulteriormente avanti il cammino dell’emancipazione umana». 
Vanni Codeluppi, invece, con il consueto acume, si occupa dell’evoluzione della figura del prosumer, ossia del consumatore messo direttamente o indirettamente al lavoro dalle aziende, rintracciandone l’anticipazione in Marx, e precisamente in Per la critica dell’economia politica del 1859, e indagandone gli aspetti inediti attuali, che lo vedono protagonista anche nelle scelte strategiche e promozionali delle imprese. Enrica Tedeschi, poi, si lancia sulle tracce del Moro per indagare il modo di produzione asiatico, arrivando a rintracciare nell’opera marxiana spunti e suggestioni davvero interessanti legati alla possibilità  «di uno sviluppo non-lineare», che può aprirsi anche alla decrescita e all’autosostenibilità , oltre che a modi diversi di coniugare la globalizzazione con i differenti localismi.
In un volume in cui le varie componenti sembrano dialogare tra loro riuscendo a offrire una visione davvero plurale del pensiero marxiano e modi originali ed efficaci di servirsene per analizzare e tentare di modificare la realtà , l’ultimo saggio, Il lavoro digitale, la specie umana e l’operaio globale di Nick Dyer-Witheford, per l’ampiezza di vedute, la profondità  delle argomentazioni e, allo stesso tempo, la scorrevolezza dei ragionamenti, riesce ad inserirsi perfettamente nell’insieme, rappresentandone la più degna conclusione. A partire dal concetto di «essere generico», ricavato da uno dei quattro tipi di alienazione elencati nei Manoscritti economici e filosofici, Dyer-Witheford costruisce un percorso che inanella concetti originali ed efficaci quali pianeta-fabbrica, accumulazione avveneristica, lavoratore globale, tecno-finanza, biocomunismo. E riesce a collegare l’analisi teorica con i movimenti e le lotte recenti, senza per questo cadere in nessun tipo di determinismo ma, anzi, ponendosi la vera questione all’altezza dei tempi, cioè sottolineando come «il futuro dell’attuale “specie vivente” dipenderà  dal livello di organizzazione bio-comunista».


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