Marchionne ha distrutto l’auto italiana. Per questo la Volkswagen lo vuole licenziare

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Chissà  se Mario Monti si è accorto che la più grande industria nazionale sta per chiudere i battenti. Chissà  se i suoi ministri sono consapevoli del fatto che la Fiat è ormai una sorta di gruviera i cui buchi grandi e piccoli sono costituiti da stabilimenti che chiudono, da linee che non camminano più, da produzioni che vengono sospese ,dalle migliaia di richieste di cassa integrazione.  Chissà  se “i tecnici” ritengono di doversi allarmare di fronte alle notizie che arrivano da Pomigliano dove, dopo un accordo epocale che ha reso durissime le condizioni di lavoro e ha espulso dalla fabbrica tutti gli iscritti Fiom, per poter produrre di più e meglio – come ha raccontato Sergio Marchionne – c’è stata comunque la richiesta di cassa integrazione e agli oltre duemila operai, già  fuori perchè colpevoli di non aver accettato l’accordo imposto dall’azienda, si sono aggiunti quelli che quell’intesa l’avevano accettata. Chissà , infine, se provocano qualche problema le notizie che  arrivano da Mirafiori dove sono state chiuse le linee della Mito e della Musa e sono stati mandati a casa 2600 operai. E dei nuovi Suv che, secondo le promesse di Marchionne, sarebbero stati prodotti a Mirafiori e poi esportati negli Usa, semplicemente non si sa niente.

Le vicende della Fiat nell’ultimo anno possono essere riassunte in questo modo: crollo delle vendite e del mercato italiano, cassa  integrazione diffusa dappertutto, minacce di chiusura di uno o due stabilimenti. Ma a questi fatti  incontrovertibili e gravi come lo sono, del resto, il peggioramento delle condizioni di lavoro e l’espulsione della Fiom se ne deve aggiungere un altro: il probabile quasi sicuro addio all’Italia della industria nazionale dell’auto. Nel futuro, infatti, non è in pericolo quella produzione o quello stabilimento, il ridimensionamento di questa o di quella produzione ma la Fiat nel suo complesso. Chi conosce bene le vicende Fiat, parla apertamente di una strategia del Lingotto che prevede la chiusura di tutti gli stabilimenti salvo uno o poco più. Anche in Italia, come negli altri paesi in cui è presente il marchio Fiat, dal Brasile alla Polonia ci sarà  una sola fabbrica. Catastrofismo? No. Basta entrare a Mirafiori, in quello che è stato lo stabilimento più grande d’Europa,  per rendersi conto che è quasi completamente fermo, che continuano a funzionare pochi reparti, che gli operai per la maggior parte dell’anno rimangono a casa.

A nessuno può sfuggire che la fine (qualcuno parla di consapevole distruzione) dell’industria automobilistica nazionale è un fatto gravissimo per i lavoratori e per l’intero paese. Può dare un colpo definitivo al già  dissestato sistema produttivo italiano.  Un solo esempio per tutti. Oggi lo stabilimento di Melfi, un tempo fiore all’occhiello di un’azienda che si lanciava nel mercato globale, occupa circa 5600 lavoratori.  Con l’indotto si sfiorano i 10.000 occupati. Che cosa può significare la chiusura o il fortissimo ridimensionamento della Sata per una economia come quella della regione Basilicata che conta 560.000 abitanti? Semplicemente un disastro.

L’assoluta indifferenza dell’esecutivo dei tecnici non è dovuta a distrazione.  Non si può ritenere infatti  una casualità  che un governo di professori, economisti, banchieri rimanga silenzioso e inerte  di fronte ad una catastrofe nazionale quale quello che si sta verificando e si sta prefigurando alla Fiat

Infatti non è un caso. Il governo dei tecnici sa benissimo quello a cui la più grande industria nazionale sta andando incontro e tace per due motivi .

Il primo è ideologico. Ritiene giusto che la Fiat faccia quello che vuole, che vada dove vuole, che metta in cassa integrazione o licenzi.  Del resto Mario Monti lo ha detto chiaramente. Dopo l’ultimo incontro con Sergio Marchionne ha testualmente affermato che la Fiat “ha il diritto oltre che il dovere di scegliere, per i suoi investimenti, le localizzazioni che ritiene più convenienti” e che  “il paese deve certo esigere ma deve anzitutto rispettare le scelte di un’impresa”. Nessuna opposizione, quindi, al fatto che stabilimenti chiudano e che alcune produzione vengano spostate altrove. Al primo posto ci sono le scelte aziendali. Le conseguenze sui lavoratori? Non sono all’ordine del giorno.

Il secondo motivo è pratico. Per qualche mese ancora la questione Fiat non esploderà  in modo eclatante, per qualche mese ancora avremo  notizie di nuova  cassa integrazione, o di mobilità  per le aziende dell’indotto che occuperanno qualche pagina dei giornali ma saranno ritenute o fatte passare per ordinaria amministrazione. E il problema più grosso, l’annuncio del forte ridimensionamento complessivo della Fiat che porta alla fine del suo posto di prima industria nazionale, sarà  rinviato. Quando il problema esploderà  saremo nel pieno della campagna elettorale e il governo Monti avrà  già  lasciato il posto ad un  altro governo. E’ inutile quindi pronunciarsi adesso. C’è solo da sperare che Sergio Marchionne non faccia annunci chiari e clamorosi. Così Monti e i suoi ministri potranno continuare a non vedere e a non sentire.


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