LO STREGA ALLA RAI “NON CI CONSULTANO”
Una diretta televisiva imbarazzante, la polemica sui voti per telegramma letti alla fine, la questione del lettori “forti” (i cui giudizi non coincidono quasi mai con il verdetto finale). Sono questi alcuni dei problemi che deve affrontare Stefano Petrocchi, coordinatore dei progetti della Fondazione Bellonci, all’indomani del Premio Strega. Petrocchi, che ha iniziato a lavorare nella segreteria del premio quando non era neanche trentenne, sa che le polemiche sono consuete ma sa pure
che qualcosa si può e si deve fare. Arrivato alla Fondazione appena laureato con il progetto di sistemare il carteggio di Maria Bellonci, si è formato alla scuola di Anna Maria Rimoaldi, signora indiscussa del Premio.
Iniziamo dalle critiche alla diretta di Rai Uno. Era difficile seguire lo spoglio dei voti, le interviste spezzavano la competizione senza criterio, la lettura dei testi non ha funzionato. C’è stata gara fino in fondo ma da casa era impossibile seguirla.
«È vero, si potrebbe migliorare. Il problema è armonizzare la diretta televisiva con l’esigenza di chi segue lo scrutinio al Ninfeo. Magari si potrebbero creare delle interviste già pronte da inserire durante lo spoglio… Ma sa questo è un problema televisivo, noi come Fondazione non siamo responsabili di quello che accade in trasmissione. È come se a una squadra di calcio si chiedesse conto di come viene fatta la telecronaca».
Non decidete voi come realizzare il programma?
«Forniamo i materiali, i comunicati stampa, le schede dei libri, ma poi se ne occupa la redazione culturale di Gigi Marzullo, mentre il conduttore lo sceglie il direttore di rete. Noi quest’anno non abbiamo partecipato a una sola riunione di redazione, né siamo stati consultati per decidere la scaletta. In alcune edizioni passate l’attenzione alla confezione del programma è stata maggiore».
Dunque, ha delle proposte da fare alla Rai?
«Mi piacerebbe poter incontrare la redazione con alcuni giorni di anticipo e parlare della scaletta».
Ha suscitato qualche polemica anche la questione dei voti per telegramma, letti tutti alla fine. È stato un caso che abbiano ribaltato il verdetto proprio in dirittura d’arrivo?
«Un puro caso. Nessuno può prevedere che voti esprimano i fax e i telegrammi. Poteva andare anche diversamente».
E a chi dice che sarebbe meglio leggerli all’inizio dello spoglio o renderli palesi?
«Si può fare. Possiamo leggerli all’inizio e mescolarli insieme alle altre schede. Sinceramente, però non capisco la differenza. Sono semplicemente forme di voto alternative, usate da quei votanti che non riescono a venire di persona o a inviare la scheda. Sono firmati per ragioni di correttezza e per qualche anno abbiamo anche letto i nomi. Ma poi ci è sembrato discriminatorio al contrario: perché costringere qualcuno a votare in modo palese, mentre altri possono farlo mantenendo l’anonimato?».
Spesso le scelte della giuria non coincidono con quelle della gente comune. Come giudica il fatto che i lettori “forti” abbiano votato Fois e Carofiglio?
«In genere i lettori scelti dalle librerie amano i romanzi classici. Due anni fa, l’anno della vittoria di Antonio Pennacchi, si ripartirono in quote uguali tra l’autore di Canale Mussolini, Silvia Avallone e Paolo Sorrentino».
Molti giurati non hanno però confermato il voto espresso alla cinquina. Pressioni editoriali?
«Quando la gara è incerta si sceglie di dare un voto “utile” per non disperderlo. Magari chi ha votato un certo libro al primo turno ha preferito spostare il voto su un candidato che poteva vincere. E poi, guardi, non le chiamerei pressioni, ma propaganda. Tutti gli editori – quelli che vincono e quelli che perdono – la fanno, non c’è niente di strano».
Nonostante le riforme che avete portato, resta un dato statistico: il gruppo Mondadori ha vinto cinque delle ultime sei edizioni.
«Noi lavoriamo per la qualità del Premio. E credo che l’incertezza di molte delle ultime edizioni, decise da una manciata di schede, mostri che la gara c’è di più».
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